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lunedì 7 dicembre 2009

MOZAMBICO 2009 - Parte 8


11/08/2009 da Mueda a Quissanga (seconda ed ultima parte)


E così alla fine siamo arrivati al bivio da dove parte la strada sterrata che ci porterà a Quissanga! E da Quissanga partono le barche per Ibo, l’isola principale dell’arcipelago delle Quirimbas, che rappresenta la nostra meta agognata: mare, sabbia bianca, panciolle. Ma come direbbe Freak Antoni tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il” e troppo ancora ci divideva da Ibo e non solo in termini spazio-temporali.

La prima difficoltà ci si è subito palesata non appena scesi dall’autobus. Ma dove eravamo? Si perché di questo bivio non c’era traccia sulle cartine del Mozambico di cui disponevamo ( e dire che andavo tanto fiero della mia carta scala 1:1.900.000 che dispiegavo con la teatralità di un novello Livingstone ogni qualvolta il mio ego vanesio necessitava di far colpo sui locali illetterati…) e non c’erano neanche cartelli stradali che ci venissero in soccorso. A dire il vero, di cartello uno ce ne era ma era riguardo ad una qualche sorta di scuola di agraria che però di certo non era lì, visto che intorno all’incrocio c’erano solo poche capanne malconce. Non ci perdiamo però d’animo e chiediamo informazioni in giro. Veniamo così a sapere che il posto dove ci troviamo si chiama Adepepe (o qualcosa del genere) e che si effettivamente da lì passano dei bus locali per Quissanga. A suffragare quest’ultima informazione c’è il fatto che non siamo gli unici ad aspettare: tutto intorno ai margini delle strade bivaccano decine di persone. Ma come spesso accadrà in questo viaggio, siamo gli unici bianchi. Evidentemente i turisti che giungono alle Quirimbas battono altre strade o si avvalgono di più comodi mezzi i trasporto. Comunque il nostro bus dovrebbe passare di lì a poco e aspettiamo.

Approfittiamo della pausa per comprare qualcosa da mangiare e da bere. Non sono fortunato con i biscotti: i wafer nonostante non risultino scaduti, almeno da quello che riporta la data stampata dietro, sono al limite dell’immangiabile. Ma la fame è fame… Spero di rifarmi con le bibite. E’ da quando siamo arrivati che ho notato che qui in Mozambico vendono delle bevande della Fanta che in Europa non esistono: una è la fanta all’ananas in una lattina di un giallo acceso, l’altra è la fanta all’uva in una lattina in un viola che oggi definirei da No B Day. Opto per la seconda. Ora non è che mi aspettassi chissà che, e vero che c’era scritto “uva” sulla lattina e certo non mi aspettavo che contenesse la spremuta dei grappoli dei vitigni di Montepulciano ma il sapore da estratto di big bubble concentrato andava al di là delle peggiori aspettative. Sarebbe passato del tempo prima che avrei assaggiato la gialla variante all’ananas anche perché la lista dei coloranti riportata sulla confezione (coloranti dalle sigle sinistre mai letti prima nei prodotti europei) non lasciava presagire nulla di buono.

Comunque era passata più di un’ora da quando avevamo chiesto per l’ennesima volta conferme sul fatto che sarebbe passato un mezzo per Quissanga e tre da quando eravamo giunti in quel benedetto bivio: un tempo sufficientemente lungo per rendere impaziente il più serafico dei monaci tibetani. Eravamo ancora una volta bloccati nel bel mezzo del nulla e l’idea di passare la notte all’addiaccio in una qualche capanna abbandonata e pulciosa ad Adepepe non ci aggradava affatto. Gli africani che avrebbero dovuto come noi, raggiungere Quissanga dal canto loro attendevano impassibili come solo loro sanno fare (alla faccia dei monaci tibetani), nella convinzione che tanto prima o poi qualcosa sarebbe accaduto. E qualcosa sarebbe accaduto perché noi, da buoni europei impazienti e deterministi, ci siamo dati da fare per uscire da quell'impasse.

Infatti nel gironzolare per i dintorni del bivio scorgiamo oltre una curva, che lo nascondeva alla nostra vista, un pick-up fermo al lato della strada. Ci avviciniamo speranzosi di trovare un passaggio. Ma il pick-up è fermo perché in panne ma quello che sembra essere il capo degli operai che si affaccendano intorno al mezzo, si dimostra disponibile a darci comunque una mano. Ci dice infatti che sta aspettando una moto che lo condurrà a prendere un pezzo di ricambio necessario alla riparazione dell’auto e da lì, non si sa bene dove, telefonerà a non si sa bene a chi per farci venire a prendere da un altro pick up. Il piano è lacunoso ma è l’unico possibile.Sorprendentemente una mezz’ora dopo vediamo arrivare una moto che si riallontana dopo aver caricato il capo operaio su cui abbiamo riposto tutte le nostre residue speranze di lasciare quel maledetto bivio. Passata più di un ora senza che alcun mezzo sia transitato per la strada, decidiamo di tornare dagli operai per avere rassicurazioni. Ma il pick-up non c’era più. Evidente lo avevano riparato ed erano ripartiti: ma non dovevano aspettare il pezzo di ricambio? Boh! A questo punto perdiamo ogni speranza e quando ormai stiamo valutando quale delle capanne abbandonate e semidiroccate sia la migliore per trascorrerci la notte, un pick-up bianco e addirittura seminuovo, si profila all’orizzonte. Siamo salvi!

Ci mettiamo d’accordo sulla cifra che ci viene estorta per portarci fino a Quissanga e ci accomodiamo sul cassone scoperto posteriore che intanto si è riempito all’inverosimile di tutti quei disperati che come noi aspettavano di essere trasportati a Quissanga ma che si erano guardati bene dal muovere un solo dito perché questo accadesse.

Non sto qui a descrivervi lo strazio di quei duecento chilometri con le gambe anchilosate costrette in una postura innaturale, tra il culone di una vecchia sovrappeso e uno scatolone riempito di non so quale materiale indeformabile. A mano a mano che i chilometri venivano divorati ad una velocità folle, considerando il carico e il fondo stradale accidentato, l’aria di mare cominciava a farsi sentire sempre più e con essa la nostra felicità. Ad un certo punto del tragitto ho visto una sagoma nera volare fuori dal cassone. “Cazzo il mio zaino!” ho pensato: il mio zaino era infatti completamente nero. Ma poi, guardando con più attenzione, ho realizzato che era solo un nero tutto vestito di nero, ad essere volato via all’ennesimo sobbalzo. Nessuno dei nostri compagni di viaggio sembrava essersi preoccupato, più di quanto non avessi fatto io, delle sorti dello sfortunato ex passeggero; solo Greta, sensibile come sempre, ha cominciato ad urlare al guidatore di fermarsi. Per sua fortuna, il malaugurato passeggero era caduto in un tratto di strada sabbioso così che se l’era cavata con solo qualche escoriazione sul volto. Senza che nessuno scendesse ad aiutarlo, anche perché impossibilitati a muoverci, incastrati come eravamo gli uni contro gli altri, il nostro sfortunato compagno di viaggio ha percorso di corsa i duecento metri che lo separavano dal pick-up e ha ripreso posto, come se nulla fosse accaduto e senza che nessuno si occupasse di lui, in quell’ammasso di corpi.

Senza ulteriori disavventure siamo così alla fine giunti a Quissanga dove abbiamo preso alloggio presso la pessima pensão “Japan”. Ve la sconsiglierei se non fosse che è l’unico alloggio possibile in quel di Quissanga. Prima di cena abbiamo giusto il tempo di bere una birra tiepida e di fare quattro passi sulla spiaggia bianca di mangrovie che scopriamo essere anche la latrina del villaggio. Le feci umane di varia forma e consistenza disseminate un po’ ovunque che risaltano sulla superficie sabbiosa candida, non lasciano dubbi sull’utilizzo accessorio della spiaggia. Poi consumata una cena frugale ma inaspettatamente buona crolliamo letteralmente stremati a letto.

Domani è un altro giorno e si vedrà.


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Per il logo si ringrazia Lucaft qui ritratto in foto