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martedì 26 ottobre 2010

Indian Religio


Non posso non cominciare a parlare dell’India se non parlando della religione. Più propriamente dovrei dire delle religioni, si perché in India convivono più o meno pacificamente molte religioni: l’Induismo con tutte le sue varianti, l’Islamismo, il Cristianesimo, il Buddismo, il Gianismo e la religione dei Sikh sono solo le principali. Ma non è tanto la pluralità delle confessioni religiose a sorprendere chi visita l’India quanto come la religione, indipendentemente da che tipo di religione si tratti, pervada pesantemente ogni singolo aspetto della vita degli indiani. Infatti basti pensare che probabilmente anche la suddivisione della popolazione in caste è un retaggio della religione: quella induista, per la precisione.
Tra tante religioni, quella che più caratterizza l’India sicuramente è l’Induismo. E non solo perché è la più diffusa, oltre l’ottanta per cento degli indiani sono induisti ma anche perché è quella più lontana dal nostro modo di vivere e concepire la religione.
Se la religione è l’oppio dei popoli, l’Induismo ne è senza dubbio l’LSD. Il pantheon induista è costituito da una infinità di dei, tutti antropomorfi ma spesso con un improbabile numero di arti e appendici, innestati con parti animali e comunque tutti coloratissimi e lucenti. Questi psichedelici ibridi di figure umane con parti di animali ricordano le divinità dell’antico Egitto. Ganesh con il corpo d’uomo e la testa di elefante o Matsya con la coda di pesce ed il tronco umano non sono poi così dissimili dagli Anubi o Thoth egizi anche se di questi ultimi non ne possiedono la caratteristica ieraticità. I dei induisti sono sempre raffigurati pulsanti di vita mai distaccati ma sempre immersi nell’immanente, almeno ad una prima visione superficiale.
Ma più che alla religione dell’antico Egitto, l’Induismo mi ha evocato quello che poteva essere il politeismo nell’antica Grecia. Anche lì c’era un variegato Pantheon di dei e semidei alcuni con caratteristiche animali. Inoltre sappiamo che le statue dei dei greci contenute nei templi erano originariamente colorate con colori vivaci che sono andati poi persi con il trascorrere dei secoli. Il vedere poi ardere le pire funerarie sul Gange a Varanasi mi ha riportato alla mente la descrizione delle pire degli eroi omerici della guerra di Troia, avvalorando così ulteriormente questa mia prima impressione.
Ma come ho scoperto poi solo dopo, queste mie impressioni erano erronee perché, a differenza di quello che apparentemente sembra, la religione induista non è propriamente una religione politeista quali invece erano quella greca e quella egizia ma enoteista. Nell’Induismo cioè, le varie divinità sono le diverse manifestazioni di un unico ente supremo trascendente.
Ma vediamo come funziona la religione Induista. Le cose stanno così: a capo di tutto c’è la sacra Trimurti, una specie della nostra Trinità, che è rappresentata nella fattispecie da un corpo con tre teste ad indicare le tre divinità costituenti: Brahma che rappresenta il creatore e che, a sua volta, possiede 4 teste, 4 braccia e 4 gambe; Siva o Shiva il distruttore e Vishnu il conservatore. I tre rappresentano i tre aspetti fondamentali del divino cioè del Brahman (l’essere supremo) da non confondersi col Brahma creatore del nostro universo specifico di cui sopra. Ora se tutto si limitasse a questo malloppo di carne (6 teste, 8 braccia e 8 gambe, se non ho sbagliato a contare) sarebbe ancora facile da capire ma poi in realtà ogni divinità ha i suoi Avatar, cioè le reincarnazioni con cui questi dei sono scesi sulla terra per ristabilire il Dharma (vi ricordate il progetto Dharma di LOST?) che sarebbe l’ordine cosmico. Per capirci è un po’ come se Gesù fosse l’Avatar del nostro Dio…
E siccome gli indiani sono prolifici tanto nella vita reale quanto in quella religiosa hanno fornito Vishnu di dieci ma qualcuno parla addirittura 23, avatar. Krishna, Rama e persino Buddha sono degli avatar di Vishnu. Degli altri due non si parla di avatar. Di Siva perché essendo presente nel mondo (rappresenta la distruzione) non aveva bisogno di incarnarsi, di Brahma, lo confesso, non so perché.
Poi per rendere le cose ancora più complicate ai dieci avatar principali di Vishnu sono stati dati mille nomi diversi. Queste sono solo le divinità principali poi però ci sono le spose dei componenti la Trimurti e le relative Avataresse e la relativa prole.
I più conosciuti tra questi parenti sono: Parvati che è la seconda moglie di Siva ma reincarnazione della prima e forse sorella di Vishnu, e qui siamo in piena soap opera, e il di lei figlio Ganesh con la sua testa di elefante. Come per gli avatar dei componenti la trimurti anche le dìvinità secondarie hanno loro emanazioni che rappresentano divinità a se stanti. Tanto per fare un esempio Kalì, quella dei Thugs Salgariani con le sue quattro braccia, non è altro che l’aspetto guerriero di Parvati. Sono cioè la stessa divinità ma con sembianze e nomi diversi. Ma torniamo a Ganesh e alla sua origine. Su questo tema esistono varie leggende. Io vi racconterò la versione che ci ha raccontato il Brahmino che ci ha fatto da guida durante la visita ai tempi di Kahajuraho. Secondo la sua versione un giorno Parvati aveva deciso di farsi un bagno, prima si massaggiò con dell’olio il corpo e raschiandoselo via prima di immergersi nell’acqua generò dal proprio sporco un ragazzo a cui assegnò il compito di farle da guardia davanti alla porta di casa mentre lei faceva il bagno. A quel punto Siva tornò a casa e trovando un estraneo a sbarrargli l’ingresso alla sua dimora, si irritò alquanto, anche perché secondo me aveva subdorato la presenza di probabili corna. E senza pensarci due volte decapitò il malcapitato ragazzo. Allora Parvati gli propinò la panzana del bagno, dell’olio, del malinteso e poi si addolorò per la scomparsa prematura del giovane. Siva per consolarla e per non starla più a sentire lamentarsi, ma questo lo aggiungo io, mandò le schiere celesti a cercare la testa di qualsiasi creatura avessero trovata addormentata col capo rivolto a nord. Questi trovarono un elefante e ne presero la testa che portarono a Siva che con un’ardita operazione di alta chirurgia attaccò al ragazzo acefalo che resuscitò e chiamò Ganesh (o Ganesha se preferite). Morale della storia non addormentatevi con la testa a nord soprattutto se siete un elefante, alla faccia del feng shui!
E così Ganesh che fu “generato” da Parvati in maniera rocambolesca senza l’intervento fecondatore di Siva che essendo d’altronde da parte sua, immortale non sentiva l’esigenza di perpetuare la sua genia, rimase figlio unico e mostrò un’attaccamento morboso nei confronti della madre. Ganesh riteneva difatti la madre la donna più bella e perfetta del mondo, (classico caso di complesso di Edipo irrisolto) e non trovando altre donne all’altezza rimase celibe per tutta la vita. Di certo la sua testa di elefante non deve di certo averlo aiutato nei rapporti con l’altro sesso ma questa è una mia conclusione del tutto personale. Anche Ganesh ha quattro braccia, cosa comune a molte divinità indiane, una sola zanna e si muove cavalcando un topo.
Adesso vi chiederete perché tutto questo pippone su Ganesh? Ma perché Ganesh è di gran lunga il dio più venerato tra tutti, almeno dal popolino indiano. Questo avviene sicuramente perché è il signore del buon auspicio, un portafortuna cioè, che viene invocato da ogni buon induista prima di dare principio a qualsivoglia attività quotidiana. Potremmo dire che la statuetta di Ganesh sta ad un indiano come il corno rosso sta ad un napoletano.
Mi accorgo di essermi dilungato anche troppo e si è fatto pure tardi. Per cui per il momento la finisco qui e me ne vado a controllare se per caso ho vinto al superenalotto non prima però di essermi ingraziato Ganesh….

martedì 5 ottobre 2010

3 cose che so. (E che Piero Angela non ha mai avuto il coraggio di dirvi).


Ogni uomo produce al giorno circa un litro di saliva. In realtà la quantità può variare dal mezzo litro fino ada arrivare ai 2,5 litri, dipendendo la produzione da molteplici fattori: l’età, lo stato di salute, l’attività (si produce per esempio, più saliva in piedi o sdraiati che seduti: quindi guardatevi bene dal fare una gara di sputi se fate un lavoro sedentario). Per avere un’idea di cosa ciò può significare, diciamo che nell’arco della nostra vita produrremo circa 30.000 litri di saliva o per lo meno dovremmo sperare di produrne almeno una quantità simile. Per potere visualizzare materialmente questa quantità potete pensare ad una piscina circolare di 6 m di diametro e profonda più di un metro ma non è necessario che vi ci tuffiate dentro. Iniziamo e terminiamo la nostra vita sbavando e passiamo tutto il resto della vita ad inghiottire saliva per impedirci di sbavare. La saliva possiede molte caratteristiche utili senza le quali la nostra vita sarebbe molto più difficile. Infatti la saliva lubrifica il cibo facilitandone la deglutizione, lubrifica le pareti della bocca e dei denti facilitandoci l’espressione verbale (pensate a cosa significherebbe dover parlare sempre con la bocca secca e impastata), prepara il cibo alla digestione attraverso l’attacco dei suoi enzimi (prima digestio fit in ore) e protegge dalle infezioni nonché dalle carie dentali per le sue proprietà antibatteriche (per un uso personale è meglio dell’amuchina). Senza la saliva avremmo la bocca cronicamente infiammata ed infetta. Interessanti sono anche i risvolti psicologici della saliva. Passiamo tutto il giorno ad inghiottire saliva ma quando questa esce dalla nostra bocca cessa di essere saliva e diventa sputo, con tutte le valenze negative che questo termine si porta dietro. Nessuno di voi, almeno spero, berrebbe un bicchiere della propria saliva anziché ingoiarla durante la normale attività di deglutizione. Eppure è la stessa sostanza. Misteri della psiche!

Se non riuscite a vomitare spontaneamente ma ne aveste voglia, ecco l’elenco di quello che dovrete fare: per iniziare un respiro profondo, chiudete la glottide e aprite lo sfintere esofageo superiore (l’ingresso dell’esofago); sollevate il palato molle per cercare di evitare che il vomito vi coli dal naso (a meno che la cosa non vi piaccia); abbassate di botto il diaframma per creare una depressione nel torace che provocherà l’apertura dell’esofago e dello sfintere che lo collega allo stomaco. Nel contempo, dovreste contrarre i nuscoli addominali comprimendo così il contenuto dello stomaco che risalirà rapidamente l’esofago e transitando attraverso la bocca proromperà all’esterno. Fatto? Se non vi è riuscito non demordete si tratta di allenare il vostro diaframma e i vostri addominali e migliorare i sincronismi dei movimenti. Nell’attesa potete provare con l’osseravare in televisione qualche politico nostrano. Io ottengo ottimi risultati con uno bassino, settentrionale, con i capelli posticci…

Ogni uomo produce 705 millilitri di gas al giorno attraverso otto episodi di flatulenza. A chi dobbiamo la scoperta? Al Centro per la nutrizione umana dell’Università di Sheffield che nel 1991 reclutò dieci volontari, equidistribuiti tra uomini e donne, che dovettero vivere per ventiquattro ore con un tubo flessibile di gomma inserito per quaranta centimetri all’interno dell’ano. Il tubo era collegato ad un sacco di raccolta di plastica e tenuto fermo con della benda chirurgica che garantiva l’impermeabilità dei collegamenti (cosa non si fa per la scienza…). Ma gli studi sull’argomento non si sono fermati qui. Un luminare del Minneapolis Veterans Affairs Center ha utilizzato per la raccolta delle flatulenze lo stesso sistema del sacco-tubo rettale messo a punto dall’equipe di Sheffield ma per studiarne l’odore. I campioni delle flatulenze vennero in questo caso prelevati dai sacchi con una siringa e consegnati a due giudici che in un ambiente privo di odori spinsero lo stantuffo della siringa tenuta a tre centimetri dal loro naso. Annusando parecchie volte i gas intestinali i due fortunati giudici hanno poi dovuto valutarne l’”odore” secondo una scala linare da 0 (nessun odore) a 8 (odore molto fastidioso). Per quanto vi possiate lamentare del vostro lavoro c’è sempre qualcuno che fa un lavoro peggiore… Il risultato dell’anlisi di quella miscela di acido solfidrico (odore di uova marce), metantiolo (odore fetido di cavolo marcio) e dimetilsulfide (odore dolciatro tipico delle loffie, dove abbonda questo elemento) che prende il nome di scoreggia è il seguente: le donne le fanno con un’intensità di odore significativamente maggiore anche se ne producono una quantità lievemente minore. La prossima volta che in ascensore sentirete una puzza insopportabile non prendetevela col vostro amico ma con quella signora elegante che guarda il soffitto con aria vaga…

PS Sia il metantiolo che l’acido solfidrico sono estremamente infiammabili. Quindi se vi viene in mente di ripetere l’esperimento, attenti a mantenere le sacche lontane da fiamme libere o fonti di calore.

PPS Se pensate che mi sia inventato tutto accomodatevi:

Tomlin, J., Lowis, C., Read, N.W. (1991). Investigation of normal flatus productio in healthy volunteers, “Gut”, 32:665-669.

Suarez, F.L., Springfield, J., Levitt, M.D. (1998). Identification of gases responsible for the odour of human flatus and evaluation of a device purported to reduce this odour, “Gut”, 43, 100-104.

sabato 2 ottobre 2010

Passaggio in India


Questa estate sono stato in India, in realtà sarei dovuto andare in Ladakh ma poi c’è stata l’alluvione… ma questa è un’altra storia, e come consuetudine di questo blog avrei dovuto già da tempo postare qualcosa su questo viaggio. Anzi sono sicuro che vi sarete chiesti i motivi del mio colpevole ritardo nello scrivere dell’India.

Le ragioni di questo mio ritardo sono semplici. La prima, mi spiace doverlo ammettere ma apprezzerete la mia onestà nel farlo, è la pigrizia. Ma effettivamente non è questa la ragione principale o per lo meno non la sola. Non ho scritto subito dell’India semplicemente perché nonostante le tre settimane trascorse laggiù, io l’India non l’ho capita! Eh si che ho cercato di integrarmi negli usi e costumi del posto, come potete evincere dalla foto.

Eppure una volta tornato a Roma, ho cercato di documentarmi, di leggere le esperienze di chi come me ma certamente con maggiori capacità di analisi e maggiore autorevolezza, ha fatto lo stesso viaggio, visto gli stessi popoli, le stesse religioni, le stesse abitudini, le stesse culture, gli stessi colori vividi, gli stessi odori o più spesso puzze, la stessa miseria e la stessa richezza e soprattutto gli stessi sguardi. Ma anche loro e parlo di Moravia e Pasolini, denunciano nei loro scritti la loro difficoltà se non l’impossibilità per un europeo di capire la concezione indiana della vita in tutti i suoi molteplici aspetti e contraddizioni.

E allora confortato dal fatto che nella mia difficoltà di comprensione non sono da solo ma in rispettabilissima compagnia, ho deciso di scrivere lo stesso quel poco che credo di aver capito dell’India e soprattutto le mie impressioni personali che mai come questo anno, vi avverto, saranno sconclusionate. Fatta questa sorta di outing non mi rimane che cominciare, ma trovo difficoltà a scegliere da che parte iniziare. Mi viene allora in mente quello che mi ha scritto Sammy su facebook al riguardo dell’India. Sammy è una mia amica, compagna di viaggio in Messico, Belize e Tanzania che è stata in India almeno un paio di volte. Da brava milanese va subito al sodo delle cose senza pedersi in troppi fronzoli e fatta partecipe delle mie perplessità mi ha scritto: “L'India all'inizio è un bel pugno nello stomaco, ma poi un po' la si digerisce! capirla non credo invece sia possibile!”.

Ecco l’India è proprio questo!

Nei prossimi post cercherò di andare oltre questa sintesi estrema raccontandovi quello che dell’India più mi ha colpito, emozionato e più di una volta lasciato sgomento.

A presto.

PS per i precisini: lo so che il Ladakh è in India. Ma è in Tibet: un altro paese rispetto all’India classica (quella di Dehli e Varanasi per intenderci) che ho visitato.


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Per il logo si ringrazia Lucaft qui ritratto in foto