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giovedì 17 dicembre 2009

HADZA PEOPLE (Prima parte)


Lo so, lo so... Vi aspettavate un’altra mirabolante puntata sul viaggio in Mozambico dell’estate scorsa. Ma oggi vi propongo qualcosa di diverso. Un salto spazio temporale: di circa 1200 km più a nord nello spazio e di un paio d’anni nel tempo rispetto, appunto, al Mozambico di quest’estate.

Ci sono cose che che rimangono sepolte nella nostra memoria per anni. Rimangono tranquille coperte dai ricordi delle esperienze personali che a loro si sono succedute nel tempo. E poi quando ce ne siamo quasi completamente dimenticati, succede qualcosa di inaspettato che ce le fa riaffiorare alla mente. E a quel punto nel giro di pochi giorni inaspettati si susseguono altri eventi che quel ricordo ci rievocano. Come se tanti episodi tra loro slegati si siano dati appuntamento per un rendezvous tanto casuale quanto fortuito di cui noi siamo partecipi spettatori.

Qualche domenica fa stavo a pranzo dai miei. A fine pranzo, in attesa del caffè, stavo leggendo l’ultimo numero del National Geographic ed in particolare un articolo che parlava di una particolare etnia della Tanzania centrale gli Hadza. L’articolo mi incuriosisce perché io in Tanzania ci sono stato due anni fa. Il nome Hadza non mi dice niente ma la descrizione che l’autore ne fa, quella si, che riaccende nel mio cervello qualche sinapsi interrotta. Leggo infatti che gli Hadza sono gli abitanti del “bush” che si estende tra il lago Eyasi e il Serengeti, sono un popolo di cacciatori e raccoglitori e vivono come vivevano i loro antenati migliaia di anni fa. Vanno a caccia quando hanno fame, non coltivano la terra ma si limitano a raccogliere tuberi e bacche o al più il miele dagli alveari, non hanno regole o calendari e neanche una religione.

A leggere queste cose mi ritorna in mente il fatto che anche noi in Tanzania abbiamo visitato una tribù di boscimani (gli abitanti del bush), partecipando addirittura ad una mitica caccia nel bush. Ma il nome di questa etnia non me lo riesco proprio a ricordare.

Poi arriva il caffè, me ne devo andare e la cosa finisce lì. Poi però il giorno dopo il nome di quei boscimani mi riaffiora alla mente: hasabe, si chiamavano hasabe! Hadza, hasabe... ma vuoi vedere che sono la stessa cosa... Wikipedia mi viene allora in soccorso: “The Hadza people, or Hadzabe'e, are an ethnic group in central Tanzania, living around Lake Eyasi in the central Rift Valley and in the neighboring Serengeti Plateau...Eh si gli hadza e i miei hasabe sono proprio la stessa cosa.

A quel punto mi collego col sito del National Geographic e mi finisco di leggere l’articolo (anche se questa volta in inglese). Gli hasabe (adesso che me ne sono riappropriato concedetemi di chiamarli, anche se erroneamente, così) parlano una loro lingua nativa diversa dallo swahili diffusamente parlato nel resto della regione. Il loro idioma ed il fatto che vivono in una zona semidesertica e inospitale li ha isolati dal resto del mondo e oggi vivono esattamente come vivevano 10.000 anni fa.

Beh questo vale per la tribù visitata dal National Geographic ma un po' meno per quella visitata da noi che vivendo al limite del loro territorio aveva contaminazioni con le altre etnie e con i turisti in visita al lago Eyasi per i quali organizzava balli tipici e battute di caccia. Il giornalista parlava poi delle difficoltà incontrate, nonostante l’ausilio di un interprete, nell’organizzare la spedizione. Dopo un primo contatto iniziale il reporter aveva concordato di ritrovarsi con l’anziano della tribù dopo tre settimane in prossimità di un dato albero. Fissare l’appuntamento non era stato facile. Gli hasabe ignorano il concetto di ora, settimana o mese. A complicare le cose c’era anche il fatto che gli hasabe non hanno parole per esprimere numeri più grossi tre o quattro. E poi anche gli alberi in un landa desolata quale è il bush, sembrano tutti uguali. Ma il giorno dell’appuntamento il boscimane era puntuale ad aspettare sotto l’albero stabilito. Alla domanda del giornalista se aveva dovuto aspettare molto, il boscimane aveva risposto come se fosse la cosa più normale del mondo: “Solo qualche giorno”.

Questo la dice lunga sul concetto di tempo in Africa di cui ho parlato in più di una occasione nei miei post precedenti. Per gli Africani il tempo è una risorsa abbondante e l’aspettare pazienti fa parte della loro natura. In particolare gli hasabe si dedicano alle attività finalizzate al procacciarsi per non più di tre/quattro ore al giorno: il resto è tutto tempo libero....

E poi aspettare di notte da soli nel bush , vi posso assicurare, non è un’esperienza delle più tranquille, con iene e leopardi che si aggirano nell’ombra. Perché noi da bravi incoscienti alla luce delle nostre torcette elettriche ci eravamo avventurati di notte nel bush alla ricerca delle iene. E meno male che dei bambini del vicino villaggio, richiamati dall’inconsueto spettacolo di luci nel buio assoluto, ci avevano accompagnato nel nostro giro dissennato e soprattutto ci avevano riportati sani e salvi (a parte qualche ferita dovuta alle acacie spinose) al nostro campeggio. Senza di loro non avremmo mai saputo ritornare alle nostre tende e ora le nostre ossa credo biancheggerebbero nel bush.


TO BE CONTINUED


2 commenti:

lucaft ha detto...

Peccato non biancheggino le tue.

Alessandro De Benedetti ha detto...

Prima che le tue ossa biancheggino mi servirebbe quella famosa perizia...


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Per il logo si ringrazia Lucaft qui ritratto in foto