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martedì 28 dicembre 2010

Babbi di Minchia di Natale #1


Andrea G. Pinketts divide gli uomini in due categorie:i babbi di minchia e gli uominiveri. I babbi di minchia sono quelli che tradiscono, sono quelli che si piegano alle regole che hanno ereditato. Gli uominiveri invece sono quelli che si creano le proprie regole e le rispettano anche quando costa caro o non è conveniente farlo. Sono quelli che lottano, che tengono duro, che hanno ampiamente superato l'idea del classismo e del razzismo in qualsiasi forma. Sono però anche quelli che se ne fottono del politically correct. E quindi se hanno un amico di colore gli possono chiedere scherzando da quanto tempo non si fanno una doccia o ad un amico gay con la conguntivite se ha per caso di recente preso un uccello nell’occhio (l’esempio è forse un po’ colorito ma vi giuro è reale), pronti al fatto che loro gli rispondano nello stesso modo. E comunque lotterebbero contro tutti e ad ogni prezzo per difenderne i diritti. Sono quelli che non pensano che tutte le donne siano puttane, tranne la mamma e la sorella, quelli che non si stupiscono di niente perché hanno un'idea della meraviglia e non dello stupore, quelli che non hanno preclusioni. I babbi di minchia sono gli impiegati della pausa pranzo che ti occupano l'intero bancone del bar, entrano e si dicono l'un l'altro: un caffettino? Ma ragioniere se permette offro io. No guardi non permetto, offro io. Ragioniere offro io. Si sentono grandi nell'offrire tre euro di caffè. Poi magari ti pugnalano alle spalle per 10 euro di aumento o per avere il posto coperto nel parcheggio aziendale. Sono quelli che vivono attraverso la televisione: si commuovono fino alle lacrime nel vedere il panda minacciato di estinzione ma userebbero il lanciafamme nei confronti dei mendicanti al semaforo.

Ora un uomovero può vestirsi da babbo natale per la gioia dei propri figli la notte di natale ma se un babbo di minchia si veste da babbo natale (un babbo natale di minchia per l’appunto) allora possiamo aspettarci solo il peggio….

#1

Era stata una giornata lavorativa come tutte le altre. Come lo erano tutte quelle dell’anno almeno da quando aveva deciso di scendere in campo. E come tutti i giorni anche quel giorno era iniziato prestissimo, riunioni su riunioni con i collaboratori più stretti per tutto il giorno ma poi era tornato un po’ prima del solito a casa per prepararsi per tempo per la cena di Natale.

Era il primo Natale senza la moglie che lo aveva lasciato senza troppi rimpianti. In genere era lei che si occupava di tutto. Ma anche senza di lei voleva che fosse ugualmente tutto perfetto anzi se possibile, anche migliore. Avrebbe avuto come ospiti tutti i suoi figli e tutti i suoi nipoti e quest’anno li avrebbe voluti stupire.

Era da qualche giorno che quell’idea era diventato il suo chiodo fisso. Certo non sarebbe stato facile convincere le sue guardie del corpo a lasciarlo fare ma che diamine alla fine era lui che comandava! E le cose sarebbero andate come aveva deciso.

L’idea era semplice: si sarebbe vestito da babbo natale, sarebbe salito sul tetto della sua villa e illuminato da fari potenti sarebbe sceso per mezzo di una scala a pioli, con il sacco dei regali in spalla, sulla terrazza prospicente l’immennso salone dove troneggiava un maestoso albero di natale finemente decorato e illuminato a giorno. I nipoti incollati ai vetri delle porte finestre del salone avrebbero assistitoa tutta la messinscena. Finita la discesa, avrebbe fatto il suo ingresso trionfale dinnanzi ai suoi nipotini esterefatti. Certo la cosa gli era costata più di qualche euro: il costume da babbo natale fatto fare su misura dal suo sarto di fiducia, da solo gli era costato più di quanto fosse umanamente possibile immaginarsi... per non parlare poi delle pressioni che aveva fatto su Bubblè, ospite di una sua televisione, per convincerlo a cantare qualche canzoncina natalizia dal vivo mentre scendeva dalla scala. Ma quell’ingrato non ne aveva voluto sapere. Magari sarebbe stato per l’anno prossimo. Non era uno che si arrendeva facilmente lui!

E così finita la cena si era assentato con la scusa di dover fare delle importanti telefonate di lavoro (scusa che usava spesso ma che sembrava funzionare sempre). Si era cambiato, aveva indossato il costume rosso in vigogna e la barba finta e con il sacco dei regali in spalla, accompagnato dalla sua inseparabile guardia del corpo Jhonny Tembo si era recato nel sottotetto. Aveva aspettato che Jhonny controllasse che sul tetto non ci fossero pericoli di sorta e poi quando questi gli aveva dato il via libera si era issato sul tetto della villa attraverso un comodo lucernaio situato a circa metà della copertura. Adesso doveva solo raggiungere l’estremità del tetto dove l’attendeva la sommità della scala a pioli illuminata a giorno e fare la sua discesa trionfale. Johnny Tembo aveva insistito fino all’ultimo per accompagnarlo nel tragitto ma su questo non aveva voluto sentire ragioni. Non era un vecchio che aveva bisogno della badante e poi se c’era qualcosa che proprio non sopportava era che qualcuno gli rubasse la scena.

Appena salito sul tetto l’aria gelida notturna gli aveva sferzato il volto intorpidito dal caldo tepore dell’interno della villa. La cosa non lo disturbò affatto, tutt’altro servì a svegliarlo da quel torpore e da quella sonnolenza che sempre più di frequente lo coglievano dopo mangiato e non solo. Anche durante la cena si era reso conto di esersi appisolato ma nessuno dei suoi commensali se ne era reso conto o almeno aveva fatto finta di non vedere. Ma mossi che ebbe i primi passi, una fitta piogerellina cominciò a scendere fastidiosa. Lì per lì la cosa non lo infastidì più di tanto ma poi il cerone cominciò a calargli sugli occhi offuscandogli la vista. E si perchè prima della cena aveva registrato un’intervista televisiva e non aveva fatto in tempo a struccarsi. Anche se a dire il vero un po’ di fondo tinta lo teneva sempre a coprire quei segni dell’età che neanche tutte gli interventi estetici a cui si era sottoposto erano riusciti completamente a nascondere. E come se non bastasse anche la superficie del tetto si era fatta viscida e scivolosa con la pioggia e camminare con quelle scarpe con il rialzo (quello della statura non proprio da corazziere era un complesso che non era mai riuscito a togliersi) non lo facilitava di certo. Forse a vrebbe fatto megio a farsi accompagnare da Johnny... Questo è quello a cui stava pensando quando un improvviso black out elettrico fece precipitare il tetto nell’oscurità. Ma poi quando la vista a poco a poco si abituò al buio, la sommità della scala, al bordo del tetto, appareve di nuovo visibile alla flebile luce della luna.

Aveva percorso già più di metà del percorso, un’altra decina di passi e sarebbe arrivato alla scala. Ce la poteva fare. Certo doveva fare attenzione a non scivolare... Intanto Jhonny Tembo preoccupato per la situazione che si era venuta a creare lo stava esortando a tornare indietro. Ma lui non era certo tipo da tirarsi indietro: mai l’aveva fatto nella sua vita e neanche questa volta avrebbe fatto eccezione. Mosse altri due passi malfermi nella direzione della scala avvinghiandosi ad un comignolo e si apresstava a coprire l’ultimo breve tratto che lo divideva dalla scala, quando la luna fu oscurata da una spessa nuvola. E con la luna spari anche quel barlume di luce che illuminava fievolmente i suoi passi.

Ma non sarebbe bastato questo a fermarlo! Altri pochi passi e sarebbe arrivato, ce la poteva fare come sempre ce l’aveva fatta nella vita. Anche se nella vita c’era sempre qualcuno che l’aveva aiutato, magari pagato lautamente, ma sempre qualcuno c’era stato. E invece ora si sentiva maledettamente solo... Quel coglione di Jhonny Tembo glielo avrebbe dovuto impedire di fare quella mattana... ma adesso doveva concentrarsi: ancora altri tre passi e ci sarebbe dovuta essere la scala.

In realtà i passi che avrebbe dovuto fare erano solo due: è questo quello che pensò mentre precipitava nel vuoto.

Quando toccò il pavimento del terrazzo dopo un volo di circa sette metri la cosa che più lo colpì fu il rumore come di rami che si spezzano. Ma non doveva essersi fatto nulla di grave perchè non sentiva nessun dolore. Adesso avrebbe fatto un respiro profondo e poi si sarebbe alzato. Perchè lui era uno che si rialzava sempre. Ogni volta che lo davano per caduto, lui si era sempre rialzato e lo avrebbe fatto anche questa volta.

Però si sentiva strano questa volta, stanco, svuotato. Si sentiva bene dove stava, così disteso per terra a fissare quel cielo che era tornato ad essere stellato. Le voci delle persone che ora si rendeva conto affaccendarsi intorno a lui gli giungevano lontane, ovattate.

L’immagine di Babbo Natale che solcava il cielo sulla sua slitta trainata dalle renne fu l’ultima cosa che videro i suoi occhi.


lunedì 13 dicembre 2010

SEPOACSANEPMV

(Sistema Elettorale Plurininominale Ostracizzante all’Ateniese(1) con Sbarramento al NANO(2) e Premio di Maggioranza Variabile)

(1) del V secolo a.C.

(2) Non eletto in quanto Avente Numero Ostracizzante di voti.

In questi giorni si fa molto parlare di legge elettorale. L’attuale, la legge Calderoli (quella denominata porcellum per intenderci), sembra non piacere quasi più a nessuno: né a chi l’ha redatta né all’opposizione né a parte della stessa coalizione che con quella legge ha vinto le elezioni del 2008. Il problema è che nessuno o quasi, vuole votare con questa legge; tutti la vogliono cambiare ma ognuno ha un’idea diversa di come la nuova legge dovrebbe essere. Visto che ognuno esprime la sua opinione, anche io, nel mio piccolo, voglio dare il mio personale contributo.

Parlando di legge elettorale bisognerebbe riuscire ad elevarsi al di sopra di quelli che sono gli interessi di parte e guardare a quelli che sono gli interessi del paese. Bisognerebbe scegliere cioè una formula elettorale piuttosto che un’altra, non tanto in base ai vantaggi che questa potrà portare alla fazione politica di appartenenza ma in funzione delle garanzie che questa può dare in termine di rappresentatività degli elettori e di difesa della democrazia del paese. Nella frase che avete appena letto ci sono una serie di concetti che vale la pena di approfondire prima di andare avanti nella descrizione della mia magnifica proposta di legge elettorale.

Vediamoli: il fatto che si parli di votazioni, e qui aggiungo libere, implica il fatto che si riferiscano ad un sistema democratico (i sistemi totalitari in genere tendono ad evitare le elezioni e se le fanno non sono comunque libere ma vengono tenute solo pro-forma). Ora la democrazia che etimologicamente parlando significa governo del popolo, non è che sia proprio quella forma di governo perfetta che si vuol fa normalmente credere. La tirannia, ad esempio ma solo se io (e dico io, solo io e nessun altro) fossi il tiranno, sarebbe una forma sicuramente migliore di governo! Ma temo che tenderebbe inesorabilmente a confliggere con il concetto che ognuno di noi ha di tirannia e non sarebbe così pacificamente perseguibile…. E poi la democrazia è un concetto intrinsecamente imperfetto che porta insito in se stesso un imbarazzante paradosso. Basta infatti che la maggioranza delle persone sia favorevole ad un governo antidemocratico perché la democrazia cessi di esistere non potendo per sua natura opporsi alla volontà della maggioranza senza contraddittoriamente cadere nella negazione di se stessa. E qui emergono altri problemi intrinsechi di una forma di governo democratico. Il primo che appare subito evidente nel paradosso di cui prima, è legato al fatto che tutti i voti hanno uguale peso e valore: pensare che il voto, che so io, di Umberto Eco valga quanto quello dell’ultimo dei tronisti della De Filippi fa oggettivamente accapponare la pelle. Ciò unito al fatto che la democrazia è pericolosamente in balia dell’emotività del popolo, per sua natura facilmente suggestionabile, porta a quegli eccessi di potere decisionale del popolo stesso che portano alle conseguenze antidemoicratiche del paradosso o per citare un esempio eclatante, alla crocifissione di Cristo e alla liberazione di Barabba.

Sul primo punto cioè sul fatto che tutti i voti hanno lo stesso valore indipendentemente dalle competenze o incompetenze di chi li ha espressi, non si può fare nulla: qualsiasi tentativo di dare un peso diverso al voto in funzione della cultura, del censo o dell’età aprirebbe facilmente la strada a forme discriminatorie non tollerabili in un paese civile e moderno.

Sul problema dell’emotività del popolo e sulle derive demagogiche e populiste che può prendere la democrazia si può fare molto, sicuramente molto più di quello che si fa oggi. Vediamo di spendere qualche parola di più al riguardo. La democrazia è il potere del popolo ma di quale popolo si parla? Del popolo sovrano o del popolo bue? E che differenze ci sono?

Direi che il popolo sovrano è quello che informato e consapevole sceglie, qualora la legge elettorale glielo consenta (ma ora non è così), i suoi rappresentanti in parlamento. Ma è anche quello che sceglie di non votare perché non c’è nessun politico in grado di rappresentarlo e non per questo deve avere meno diritti.

Mentre il popolo bue è quello che si lascia trascinare dalle false promesse e dalla retorica di demagoghi senza scrupoli che sapientemente fanno leva su sentimenti irrazionali di paura e di odio nei confronti dell’avversario politico e delle minoranze spesso usate nelle vesti di capro espiatorio dei problemi che si è incapace di risolvere. Il popolo bue è quello che cede alle lusinghe di moderni despoti che parlando alle pance dei sudditi promettono “panem et circenses” (oggi potremmo dire “magnum fratem”) sfruttando il potere mediatico di cui dispongono. Il popolo bue è quello che ha subito il rapporto diretto, risultandone poi manipolato, di leader quali Hitler, Mussolini e Péron.

Scusate la retorica alla Nichi Vendola ma mi è scappata…

Le moderne democrazie dovrebbero evitare le facili manipolazioni del popolo, dotandosi di organi di controllo (le authority di cui si parla tanto) che indipendenti dal potere politico impediscano il verificarsi di questi fenomeni e di un giornalismo libero (si pensi ai rischi altissimi per la democrazia che possono derivare dal controllo della politica o dei poteri forti di quello che si definisce quarto potere) che smascheri quanto di falso, pregiudizievole e diffamatorio dichiarano i leader politici.

Diciamolo però subito, a scanso di equivoci, seppure profondamente imperfetta la democrazia è il minore dei mali possibile e ce la dobbiamo tenere stretta e difenderla da chi vuole attaccarla, dalla demagogia e dal popolismo e dalle derive totalitaristiche che ne possono discendere.

All’inizio parlavo anche della rapprentatività che la legge elettorale deve garantire. A mio giudizio dovrebbe garantire la rappresentanza di chi vota ma anche di chi non vota e non per questo possiede meno diritti. Mi spiego con un esempio. Alle ultime elezioni, che hanno avuto un’affluenza del 77%, il PdL ha a collezionato circa il 38% delle preferenze. Ora il 38% del 77% fa circa il 29% neanche un italiano su tre. Ecco credo che il fatto di avere il consenso di un italiano su tre non giustifichi il fatto di disporre del paese come si vuole solo perché si ha la maggioranza relativa dei voti.

E’ chiaro che basta e deve poter bastare la maggioranza relativa per governare ma per modificare le istituzioni e le leggi che sono a fondamento e tutela della democrazia bisognerebbe avere la raprresentanza della maggioranza assoluta degli italiani. Un po’ come nelle riunioni condominiali dove per deliberare i lavori di manutenzione straordinaria bisogna avere la maggioranza dei millesimi e non solo la maggioranza dei voti dei presenti all’assemblea.

Stabilito quello che una legge elettorale dovrebbe garantire veniamo alla mia meravigliosa proposta.

Come si possono arginare i rischi che possono derivare alla democrazia da derive populistiche e demagogiche? A volte ha senso voltarsi indietro per guardare avanti. E infatti nella storia della Grecia antica e più precisamente nell’Atene del V secolo a.c. , era presente l’istituzione dell’ostracismo che sembra essere la risposta giusta alla domanda di prima. L’ostracismo era un meccanismo attraverso il quale si votavano, incidendone il nome su dei pezzi di coccio, quegli individui che si pensava potessero rappresentare potenziali pericoli per la democrazia. Chi otteneva la maggioranza semplice dei voti veniva punito con un esilio decennale anche se non aveva compiuto nulla di penalmente perseguibile. Bastava infatti la possibilità di poter diventare dei tiranni potenziali per poter essere ostarcizzati e quindi esiliati.

Ai giorni d’oggi l’ostracismo così come veniva praticato ad Atene, sarebbe oggettivamente di difficile applicazione se non altro per la mancanza di cocci e non ultimo per la difficoltà di inserirli in un’urna elettorale…

Ho pensato quindi ad una versione riveduta e corretta dell’ostracisno. Durante le votazioni nella scheda elettorale si potrà esprimere una preferenza (cioè indicare quella persona che voglio che sia eletta nel collegio elettorale di appartenenza tra quelle indicate nella lista di partito) e al contempo anche un voto negativo “ostracizzante” (cioè si potrà indicare quella persona che non voglio sia eletta perché reputo possa rappresentare un pericolo per la democrazia o comunque per il paese in genere). Chiaramente si può esprimere anche solo il voto contro. In questo modo si può dare voce a quelle persone che non votano perché ritengono che non ci sia nessun partito o candidato che li rappresenti ma che saprebbero benissimo chi non vorrebbero mai a governarli.

Chiaramente il voto contrario sarebbe un voto che dovrebbe colpire il singolo candidato e non il partito di appartenenza. Il voto contrario andrebbe cioè decurtato dall’ammontare dei voti ricevuti dal candidato ostracizzato ma per non punire il partito il voto andrebbe comunque assegnato alla lista di appartenenza del candidato stesso ridistribuito tra gli altri appartenenti alla lista in proporzione ai voti ricevuti da ciascuno. Questo fintanto che i voti positivi per ogni singolo candidato superano quelli negativi ricevuti. Qualora i voti negativi di un candidato superassero quelli positivi l’eccedenza tra voti negativi e quelli positivi non andrebbe riassegnata alla lista ma persa definitivamente. Questo per penalizzare quelle liste che presentassero rappresentanti “impresentabili”. Chiaro no?

Il sistema da me ideato prevedrebbe collegi plurinominali, per garantire una certa proporzionalità e rappresentatività dei partiti minori, ed il turno unico per risparmiare sulle spese elettorali.

Per garantire una maggiore governabilità si garantirà un premio di maggioranza che avrà un tetto massimo, diciamo del 15%, ma che non sarà fisso ma attribuito in proporzione ai voti positivi ottenuti da tutti i rappresentanti della lista sul totale dei voti di lista (positivi + negativi).

Cioè se per esempio, la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti ha contabilizzato 70 voti positivi ma 30 negativi (cioè un 70% di voti positivi) si vedrà asseganto un premio di maggioranza che sarà solo il 70% del 15% di premio massimo. Questo sempre nell’ottica di convincere i partiti a non presentare dei “mostri” alle elezioni

Si lo so: non è quel sistema meraviglioso che vi avevo promesso ma mi sembra comunque, tutto sommato, un sistema elettorale abbastanza imperfetto e complicato da potere essere applicato tranquillamente nel nostro paese…

martedì 26 ottobre 2010

Indian Religio


Non posso non cominciare a parlare dell’India se non parlando della religione. Più propriamente dovrei dire delle religioni, si perché in India convivono più o meno pacificamente molte religioni: l’Induismo con tutte le sue varianti, l’Islamismo, il Cristianesimo, il Buddismo, il Gianismo e la religione dei Sikh sono solo le principali. Ma non è tanto la pluralità delle confessioni religiose a sorprendere chi visita l’India quanto come la religione, indipendentemente da che tipo di religione si tratti, pervada pesantemente ogni singolo aspetto della vita degli indiani. Infatti basti pensare che probabilmente anche la suddivisione della popolazione in caste è un retaggio della religione: quella induista, per la precisione.
Tra tante religioni, quella che più caratterizza l’India sicuramente è l’Induismo. E non solo perché è la più diffusa, oltre l’ottanta per cento degli indiani sono induisti ma anche perché è quella più lontana dal nostro modo di vivere e concepire la religione.
Se la religione è l’oppio dei popoli, l’Induismo ne è senza dubbio l’LSD. Il pantheon induista è costituito da una infinità di dei, tutti antropomorfi ma spesso con un improbabile numero di arti e appendici, innestati con parti animali e comunque tutti coloratissimi e lucenti. Questi psichedelici ibridi di figure umane con parti di animali ricordano le divinità dell’antico Egitto. Ganesh con il corpo d’uomo e la testa di elefante o Matsya con la coda di pesce ed il tronco umano non sono poi così dissimili dagli Anubi o Thoth egizi anche se di questi ultimi non ne possiedono la caratteristica ieraticità. I dei induisti sono sempre raffigurati pulsanti di vita mai distaccati ma sempre immersi nell’immanente, almeno ad una prima visione superficiale.
Ma più che alla religione dell’antico Egitto, l’Induismo mi ha evocato quello che poteva essere il politeismo nell’antica Grecia. Anche lì c’era un variegato Pantheon di dei e semidei alcuni con caratteristiche animali. Inoltre sappiamo che le statue dei dei greci contenute nei templi erano originariamente colorate con colori vivaci che sono andati poi persi con il trascorrere dei secoli. Il vedere poi ardere le pire funerarie sul Gange a Varanasi mi ha riportato alla mente la descrizione delle pire degli eroi omerici della guerra di Troia, avvalorando così ulteriormente questa mia prima impressione.
Ma come ho scoperto poi solo dopo, queste mie impressioni erano erronee perché, a differenza di quello che apparentemente sembra, la religione induista non è propriamente una religione politeista quali invece erano quella greca e quella egizia ma enoteista. Nell’Induismo cioè, le varie divinità sono le diverse manifestazioni di un unico ente supremo trascendente.
Ma vediamo come funziona la religione Induista. Le cose stanno così: a capo di tutto c’è la sacra Trimurti, una specie della nostra Trinità, che è rappresentata nella fattispecie da un corpo con tre teste ad indicare le tre divinità costituenti: Brahma che rappresenta il creatore e che, a sua volta, possiede 4 teste, 4 braccia e 4 gambe; Siva o Shiva il distruttore e Vishnu il conservatore. I tre rappresentano i tre aspetti fondamentali del divino cioè del Brahman (l’essere supremo) da non confondersi col Brahma creatore del nostro universo specifico di cui sopra. Ora se tutto si limitasse a questo malloppo di carne (6 teste, 8 braccia e 8 gambe, se non ho sbagliato a contare) sarebbe ancora facile da capire ma poi in realtà ogni divinità ha i suoi Avatar, cioè le reincarnazioni con cui questi dei sono scesi sulla terra per ristabilire il Dharma (vi ricordate il progetto Dharma di LOST?) che sarebbe l’ordine cosmico. Per capirci è un po’ come se Gesù fosse l’Avatar del nostro Dio…
E siccome gli indiani sono prolifici tanto nella vita reale quanto in quella religiosa hanno fornito Vishnu di dieci ma qualcuno parla addirittura 23, avatar. Krishna, Rama e persino Buddha sono degli avatar di Vishnu. Degli altri due non si parla di avatar. Di Siva perché essendo presente nel mondo (rappresenta la distruzione) non aveva bisogno di incarnarsi, di Brahma, lo confesso, non so perché.
Poi per rendere le cose ancora più complicate ai dieci avatar principali di Vishnu sono stati dati mille nomi diversi. Queste sono solo le divinità principali poi però ci sono le spose dei componenti la Trimurti e le relative Avataresse e la relativa prole.
I più conosciuti tra questi parenti sono: Parvati che è la seconda moglie di Siva ma reincarnazione della prima e forse sorella di Vishnu, e qui siamo in piena soap opera, e il di lei figlio Ganesh con la sua testa di elefante. Come per gli avatar dei componenti la trimurti anche le dìvinità secondarie hanno loro emanazioni che rappresentano divinità a se stanti. Tanto per fare un esempio Kalì, quella dei Thugs Salgariani con le sue quattro braccia, non è altro che l’aspetto guerriero di Parvati. Sono cioè la stessa divinità ma con sembianze e nomi diversi. Ma torniamo a Ganesh e alla sua origine. Su questo tema esistono varie leggende. Io vi racconterò la versione che ci ha raccontato il Brahmino che ci ha fatto da guida durante la visita ai tempi di Kahajuraho. Secondo la sua versione un giorno Parvati aveva deciso di farsi un bagno, prima si massaggiò con dell’olio il corpo e raschiandoselo via prima di immergersi nell’acqua generò dal proprio sporco un ragazzo a cui assegnò il compito di farle da guardia davanti alla porta di casa mentre lei faceva il bagno. A quel punto Siva tornò a casa e trovando un estraneo a sbarrargli l’ingresso alla sua dimora, si irritò alquanto, anche perché secondo me aveva subdorato la presenza di probabili corna. E senza pensarci due volte decapitò il malcapitato ragazzo. Allora Parvati gli propinò la panzana del bagno, dell’olio, del malinteso e poi si addolorò per la scomparsa prematura del giovane. Siva per consolarla e per non starla più a sentire lamentarsi, ma questo lo aggiungo io, mandò le schiere celesti a cercare la testa di qualsiasi creatura avessero trovata addormentata col capo rivolto a nord. Questi trovarono un elefante e ne presero la testa che portarono a Siva che con un’ardita operazione di alta chirurgia attaccò al ragazzo acefalo che resuscitò e chiamò Ganesh (o Ganesha se preferite). Morale della storia non addormentatevi con la testa a nord soprattutto se siete un elefante, alla faccia del feng shui!
E così Ganesh che fu “generato” da Parvati in maniera rocambolesca senza l’intervento fecondatore di Siva che essendo d’altronde da parte sua, immortale non sentiva l’esigenza di perpetuare la sua genia, rimase figlio unico e mostrò un’attaccamento morboso nei confronti della madre. Ganesh riteneva difatti la madre la donna più bella e perfetta del mondo, (classico caso di complesso di Edipo irrisolto) e non trovando altre donne all’altezza rimase celibe per tutta la vita. Di certo la sua testa di elefante non deve di certo averlo aiutato nei rapporti con l’altro sesso ma questa è una mia conclusione del tutto personale. Anche Ganesh ha quattro braccia, cosa comune a molte divinità indiane, una sola zanna e si muove cavalcando un topo.
Adesso vi chiederete perché tutto questo pippone su Ganesh? Ma perché Ganesh è di gran lunga il dio più venerato tra tutti, almeno dal popolino indiano. Questo avviene sicuramente perché è il signore del buon auspicio, un portafortuna cioè, che viene invocato da ogni buon induista prima di dare principio a qualsivoglia attività quotidiana. Potremmo dire che la statuetta di Ganesh sta ad un indiano come il corno rosso sta ad un napoletano.
Mi accorgo di essermi dilungato anche troppo e si è fatto pure tardi. Per cui per il momento la finisco qui e me ne vado a controllare se per caso ho vinto al superenalotto non prima però di essermi ingraziato Ganesh….

martedì 5 ottobre 2010

3 cose che so. (E che Piero Angela non ha mai avuto il coraggio di dirvi).


Ogni uomo produce al giorno circa un litro di saliva. In realtà la quantità può variare dal mezzo litro fino ada arrivare ai 2,5 litri, dipendendo la produzione da molteplici fattori: l’età, lo stato di salute, l’attività (si produce per esempio, più saliva in piedi o sdraiati che seduti: quindi guardatevi bene dal fare una gara di sputi se fate un lavoro sedentario). Per avere un’idea di cosa ciò può significare, diciamo che nell’arco della nostra vita produrremo circa 30.000 litri di saliva o per lo meno dovremmo sperare di produrne almeno una quantità simile. Per potere visualizzare materialmente questa quantità potete pensare ad una piscina circolare di 6 m di diametro e profonda più di un metro ma non è necessario che vi ci tuffiate dentro. Iniziamo e terminiamo la nostra vita sbavando e passiamo tutto il resto della vita ad inghiottire saliva per impedirci di sbavare. La saliva possiede molte caratteristiche utili senza le quali la nostra vita sarebbe molto più difficile. Infatti la saliva lubrifica il cibo facilitandone la deglutizione, lubrifica le pareti della bocca e dei denti facilitandoci l’espressione verbale (pensate a cosa significherebbe dover parlare sempre con la bocca secca e impastata), prepara il cibo alla digestione attraverso l’attacco dei suoi enzimi (prima digestio fit in ore) e protegge dalle infezioni nonché dalle carie dentali per le sue proprietà antibatteriche (per un uso personale è meglio dell’amuchina). Senza la saliva avremmo la bocca cronicamente infiammata ed infetta. Interessanti sono anche i risvolti psicologici della saliva. Passiamo tutto il giorno ad inghiottire saliva ma quando questa esce dalla nostra bocca cessa di essere saliva e diventa sputo, con tutte le valenze negative che questo termine si porta dietro. Nessuno di voi, almeno spero, berrebbe un bicchiere della propria saliva anziché ingoiarla durante la normale attività di deglutizione. Eppure è la stessa sostanza. Misteri della psiche!

Se non riuscite a vomitare spontaneamente ma ne aveste voglia, ecco l’elenco di quello che dovrete fare: per iniziare un respiro profondo, chiudete la glottide e aprite lo sfintere esofageo superiore (l’ingresso dell’esofago); sollevate il palato molle per cercare di evitare che il vomito vi coli dal naso (a meno che la cosa non vi piaccia); abbassate di botto il diaframma per creare una depressione nel torace che provocherà l’apertura dell’esofago e dello sfintere che lo collega allo stomaco. Nel contempo, dovreste contrarre i nuscoli addominali comprimendo così il contenuto dello stomaco che risalirà rapidamente l’esofago e transitando attraverso la bocca proromperà all’esterno. Fatto? Se non vi è riuscito non demordete si tratta di allenare il vostro diaframma e i vostri addominali e migliorare i sincronismi dei movimenti. Nell’attesa potete provare con l’osseravare in televisione qualche politico nostrano. Io ottengo ottimi risultati con uno bassino, settentrionale, con i capelli posticci…

Ogni uomo produce 705 millilitri di gas al giorno attraverso otto episodi di flatulenza. A chi dobbiamo la scoperta? Al Centro per la nutrizione umana dell’Università di Sheffield che nel 1991 reclutò dieci volontari, equidistribuiti tra uomini e donne, che dovettero vivere per ventiquattro ore con un tubo flessibile di gomma inserito per quaranta centimetri all’interno dell’ano. Il tubo era collegato ad un sacco di raccolta di plastica e tenuto fermo con della benda chirurgica che garantiva l’impermeabilità dei collegamenti (cosa non si fa per la scienza…). Ma gli studi sull’argomento non si sono fermati qui. Un luminare del Minneapolis Veterans Affairs Center ha utilizzato per la raccolta delle flatulenze lo stesso sistema del sacco-tubo rettale messo a punto dall’equipe di Sheffield ma per studiarne l’odore. I campioni delle flatulenze vennero in questo caso prelevati dai sacchi con una siringa e consegnati a due giudici che in un ambiente privo di odori spinsero lo stantuffo della siringa tenuta a tre centimetri dal loro naso. Annusando parecchie volte i gas intestinali i due fortunati giudici hanno poi dovuto valutarne l’”odore” secondo una scala linare da 0 (nessun odore) a 8 (odore molto fastidioso). Per quanto vi possiate lamentare del vostro lavoro c’è sempre qualcuno che fa un lavoro peggiore… Il risultato dell’anlisi di quella miscela di acido solfidrico (odore di uova marce), metantiolo (odore fetido di cavolo marcio) e dimetilsulfide (odore dolciatro tipico delle loffie, dove abbonda questo elemento) che prende il nome di scoreggia è il seguente: le donne le fanno con un’intensità di odore significativamente maggiore anche se ne producono una quantità lievemente minore. La prossima volta che in ascensore sentirete una puzza insopportabile non prendetevela col vostro amico ma con quella signora elegante che guarda il soffitto con aria vaga…

PS Sia il metantiolo che l’acido solfidrico sono estremamente infiammabili. Quindi se vi viene in mente di ripetere l’esperimento, attenti a mantenere le sacche lontane da fiamme libere o fonti di calore.

PPS Se pensate che mi sia inventato tutto accomodatevi:

Tomlin, J., Lowis, C., Read, N.W. (1991). Investigation of normal flatus productio in healthy volunteers, “Gut”, 32:665-669.

Suarez, F.L., Springfield, J., Levitt, M.D. (1998). Identification of gases responsible for the odour of human flatus and evaluation of a device purported to reduce this odour, “Gut”, 43, 100-104.

sabato 2 ottobre 2010

Passaggio in India


Questa estate sono stato in India, in realtà sarei dovuto andare in Ladakh ma poi c’è stata l’alluvione… ma questa è un’altra storia, e come consuetudine di questo blog avrei dovuto già da tempo postare qualcosa su questo viaggio. Anzi sono sicuro che vi sarete chiesti i motivi del mio colpevole ritardo nello scrivere dell’India.

Le ragioni di questo mio ritardo sono semplici. La prima, mi spiace doverlo ammettere ma apprezzerete la mia onestà nel farlo, è la pigrizia. Ma effettivamente non è questa la ragione principale o per lo meno non la sola. Non ho scritto subito dell’India semplicemente perché nonostante le tre settimane trascorse laggiù, io l’India non l’ho capita! Eh si che ho cercato di integrarmi negli usi e costumi del posto, come potete evincere dalla foto.

Eppure una volta tornato a Roma, ho cercato di documentarmi, di leggere le esperienze di chi come me ma certamente con maggiori capacità di analisi e maggiore autorevolezza, ha fatto lo stesso viaggio, visto gli stessi popoli, le stesse religioni, le stesse abitudini, le stesse culture, gli stessi colori vividi, gli stessi odori o più spesso puzze, la stessa miseria e la stessa richezza e soprattutto gli stessi sguardi. Ma anche loro e parlo di Moravia e Pasolini, denunciano nei loro scritti la loro difficoltà se non l’impossibilità per un europeo di capire la concezione indiana della vita in tutti i suoi molteplici aspetti e contraddizioni.

E allora confortato dal fatto che nella mia difficoltà di comprensione non sono da solo ma in rispettabilissima compagnia, ho deciso di scrivere lo stesso quel poco che credo di aver capito dell’India e soprattutto le mie impressioni personali che mai come questo anno, vi avverto, saranno sconclusionate. Fatta questa sorta di outing non mi rimane che cominciare, ma trovo difficoltà a scegliere da che parte iniziare. Mi viene allora in mente quello che mi ha scritto Sammy su facebook al riguardo dell’India. Sammy è una mia amica, compagna di viaggio in Messico, Belize e Tanzania che è stata in India almeno un paio di volte. Da brava milanese va subito al sodo delle cose senza pedersi in troppi fronzoli e fatta partecipe delle mie perplessità mi ha scritto: “L'India all'inizio è un bel pugno nello stomaco, ma poi un po' la si digerisce! capirla non credo invece sia possibile!”.

Ecco l’India è proprio questo!

Nei prossimi post cercherò di andare oltre questa sintesi estrema raccontandovi quello che dell’India più mi ha colpito, emozionato e più di una volta lasciato sgomento.

A presto.

PS per i precisini: lo so che il Ladakh è in India. Ma è in Tibet: un altro paese rispetto all’India classica (quella di Dehli e Varanasi per intenderci) che ho visitato.

lunedì 2 agosto 2010

Incongruenze


DUBBI
P3 "Nome in codice: Cesare, nome dell'avvocato: Cesare, nome del figlio: Pier Cesare."
Chi sarà? Gli inquirenti brancolano nel buio...

Centro de L'Aquila a 15 mesi dal terremoto: niente altro che macerie!
Ma i massoni non erano muratori? Mah....

CHIARIMENTI
Per Nicholas Farrell la destra di Berlusconi è di destra ma la destra di Fini è di sinistra. D'altronde sempre secondo Farrell Fini sarebbe un nazionalsocialista. Ma il fascismo, è ora di ammetterlo, è roba di sinistra. Tant'è che Churchill, lui si uomo di destra, ha combattuto la secondo guerra mondiale contro la destra nazifascista "sinistroide".
Ora mi è tutto più chiaro...
Heil Churchill, compagno Hitler.

PS Un ringraziamento al purtroppo quotidiano il Giornale per averci permesso di conoscere l'illuminato e illuminante pensiero di Farrell

lunedì 19 luglio 2010

Campioni d'Africa


Una settimana fa esatta, il campionato del mondo di calcio si è concluso con la finale di Johannesburg tra Spagna e Olanda. La Spagna ha vinto, l’Olanda ha perso, tutti i commenti sono stati fatti, le polemiche varie si sono ormai sopite e i festeggiamenti si sono spenti anche in Spagna, almeno presumo.
Bene, lo so di non essere, giornalisticamente parlando, proprio sul pezzo, ma che volete… fa caldo e sono più pigro del solito! E ora e solo ora mi sento di poter trarre qualche brillante conclusione personale sull’evento sportivo appena terminato. E credo di avere anche i titoli per farlo legittimamente perché io in Africa a pallone ci ho giocato davvero e prima di Cannavaro e compagnia bella, guardate come prova la foto sopra. Eh si quello in primo piano riconoscibile per la carnagione più pallida e la plasticità dei movimenti sono proprio io!
Innanzitutto due considerazioni sulla finale. E’ stata una tra le partite più brutte di tutti i mondiali. Il gioco completamente annullato dagli eccessivi tatticismi messi in atto dalle due squadre europee bloccate dalla paura di perdere. Pressing portato a tutto campo, difese alte e tattica del fuorigioco: si è finito per giocare in trenta, quaranta metri quando il campo è lungo più di cento. Il risultato di avere venti giocatori ammassati in così poco spazio è stato che un giocatore appena riceveva palla non aveva neanche il tempo di stoppare il pallone che veniva subito pressato da almeno due giocatori avversari pronti a randellarlo se non si sbarazzava più che in fretta del pallone.
Immagino che se la partita non è piaciuta a me che sono europeo e quindi abituato all’esasperazione della tattica tipica del calcio moderno, tanto meno sarà piaciuta allo spettatore africano medio. Si perché per gli africani il calcio è soprattutto un gioco, un gioco divertente, prima ancora che uno sport. Per loro il risultato non è tutto. La massima soddisfazione la traggono dalla giocata ad effetto, dalla corsa instancabile, dal dribbling esagerato. Non è un caso che, almeno nella parte di Africa che ho visitato, il campionato di calcio più seguito attraverso i canali satellitari sia quello inglese: certamente il più spettacolare tra quelli europei.
A questo proposito vi racconto un simpatico aneddoto. Eravamo in Tanzania, in un piccolo villaggio ai margini del Serengeti, qualche anno fa. Passeggiando per la strada principale ci fermiamo ad osservare una masnada di bambini giocare con un pallone fatto di buste di plastica tenute insieme da elastici e corde. Da lì a metterci a giocare anche noi con loro è stato un attimo. Siamo andati a prendere il nostro bel pallone di cuoio e ci siamo divisi in due squadre. Squadre miste: bambini africani insieme a più attempati e imbolsiti muzungu (che in lingua swahili significa "uomo bianco"). Mi ricordo che giocavamo al lato della strada principale su uno strato soffice di pula proveniente dalla battitura forse del miglio. Mi ricordo la felicità di quei bambini nel poter giocare con un pallone vero. Mi ricordo la fierezza di quei bimbi nel giocare con degli adulti, europei come i loro idoli televisivi. Mi ricordo che erano bravi e che ci siamo divertiti tanto. Mi ricordo che non c’era modo di far rispettare dei ruoli prefissati a quei bimbi: difensori, attaccanti o centrocampisti, quando prendevano palla cercavano di dribblare tutti e segnare. Mi ricordo che in capo a venti minuti dall’inizio di quella improvvisata partita di calcio l’intera popolazione adulta del villaggio aveva lasciato le proprie occupazioni, senza grossi rimpianti immagino, per assistere e tifare alla partita. Mi ricordo in particolare di un bambino un po’ più piccolo degli altri a cui piaceva segnare e che tirava sempre in porta: nella propria o in quella avversaria non faceva differenza: l’importante era fare gol.
Ricordo che a fine partita, da meschini italiani, pensammo “bravi a pallone questi africani ma non vinceranno mai un mondiale!”. In realtà le squadre africane ci proveranno a vincere un mondiale e per fare questo già da adesso si affidano a tecnici europei che cercano di inquadrarli in schemi e tattiche rigide.
Ma ne varrà la pena? Varrà la pena snaturare così radicalmente quello che alla fin fine è e dovrebbe essere un gioco. Varrà la pena per vincere un mondiale giocare delle partite così brutte e noiose come quelle che abbiamo visto giocare in Sud Africa?
L’altra considerazione riguardo al calcio in Africa, riguarda i mezzi. Mi ricordo che l’hanno scorso attraversando Johannesburg ho visto lo stadio da fuori. Bellissimo. Ma per l’Africa rappresenta un eccezione così come il ricco Sud Africa rappresenta una eccezione nei confronti degli altri stati dell’Africa nera e così come il jabulani (il pallone leggerissimo e tecnologico dei mondiali africani) rappresenta l’eccezione nei confronti dei palloni fatti con le buste di plastica e con gli elastici con cui giocano la stragrande maggioranza dei bambini africani.
A questo proposito un altro aneddoto, non vi preoccupate:è l’ultimo. L’estate scorsa in Mozambico, eravamo ad Ibo l’isola principale dell’arcipelago delle Quirimbas. Nella piazzetta principale del villaggio, adolescenti africani giocavano a calcio con il solito pallone di fortuna. In questo caso c’era anche una porta: tre pali malmessi dalla precaria staticità. Passando rimaniamo colpiti d’abilità di un giocatore nel riuscire a tirare sistematicamente il pallone sotto il sette della porta. Poi un tiro impreciso fa rotolare il pallone verso di noi. E uno di noi orgoglioso della propria italianità, l’anno scorso ci potevamo ancora fregiare a buon diritto del titolo di campioni del mondo, calcia la palla per rimandarla verso i giocatori del posto.
Calcia in bello stile ma il pallone rotola solo per pochi metri. Il mio amico si prende il piede tra le mani e reprime con fermo stoicismo un fantozziano urlo di dolore. Non era sicuramente uno jabulani, il pallone calciato, ma un pesantissimo ammasso di buste e foglie. Rimane un mistero irrisolto della fisica come faceva ad essere piazzato sotto la traversa dall’esile giocatore di Ibo.
Beh mi sono dilungato anche troppo e le conclusioni e la morale di queste storie le lascio a voi.
Non vorrete che faccia tutto io….

PS Ringrazio Sara per avermi messo a disposizione la bella foto. Dubito però che l’abbia scattata lei…

lunedì 7 giugno 2010

Balaneria: breaking news


Parli del diavolo e spuntano le corna. So che è soltanto una semplice coincidenza ma il breve lasso di tempo (due giorni) che è intercorso tra il mio ultimo post e l’arrivo per posta del rendiconto trimestrale della mia carta fedeltà PAM, lascia quantomeno un po’ interdetti. Che PAM mi stia spiando leggendo il mio blog? Sembra fantascienza ma come vedremo nel prossimo post che avrà come argomento proprio i blog, non è poi un’ipotesi troppo lontana da divenire realtà…
Il resoconto l’ho ricevuto sabato e oggi che è domenica ho un po’ di tempo per studiarlo con calma. Il miglior modo per sconfiggere il nemico è conoscere come pensa e come agisce!
Vediamo. Innanzitutto ci sono dei buoni spesa tout court senza ulteriori condizioni per una decina di euro. E’ l’obolo che PAM mi paga per poter studiare le mie abitudini di spesa attraverso la tracciabilità degli acquisti garantitagli dalla mia carta fedeltà. Ma oltre agli innocui buoni spesa, la magnanima PAM mi propone quattro extra sconto per acquisti fatti rispettivamente nel reparto surgelati, nel reparto bevande esclusi acqua e vino, per i salumi serviti al banco e al reparto ortofrutta. A rettifica di quanto detto nel post precedente devo dire che gli extra sconto riguardano articoli che normalmente acquisto nella mia spesa settimanale. Questi extra sconto ammontano a circa il 20%, non male ma mi sarei aspettato di più da PAM, ma sono condizionati al raggiungimento di un importo minimo di spesa diverso a seconda del reparto.
E qui sta l’inghippo. Si perché ad occhio e croce l’importo minimo che devo raggiungere per garantirmi l’extra sconto del 20% (una tantum) mi sembra maggiore di quanto spenda normalmente durante la mia spesa abituale. Direi che PAM subdolamente sta invogliandomi a spendere di più: ad comprare quantità maggiori di quei prodotti che normalmente acquisto. Sta cercando, blandendomi con i suoi sconti, di far alzare di un po’ l’asticella dei miei acquisti. E poco importa se comprerò più di quello che mi serve e se quindi i bene scadranno e finiranno nella spazzatura o se vedrò aumentare i miei consumi e con essi il responso impietoso della bilancia.
Ma ora che so a che gioco sta giocando PAM mi comporterò di conseguenza… Comprerò per me le maggiori quantità richiestemi per ottenere gli extra sconti dei beni non deperibili (bevande e surgelati il cui consumo potrò dilazionare nel tempo) e le altre solo quando avrò ospiti a cena che ne giustifichino i maggiori consumi, per esempio.
Non sono un passivo babbano, io; ma un balano consapevole pronto a dar battaglia alla grande distribuzione con le sue stesse armi.
Lo so cosa state pensando: il sole di questi giorni mi ha dato alla testa e che comunque è una battaglia persa in partenza. Può essere ma non toglietemi la speranza di poter combattere per un mondo migliore, anche al supermercato!

giovedì 3 giugno 2010

Balani alla riscossa!


Innanzitutto due premesse doverose. La prima riguarda il titolo del post: balani. I balani sono dei crostacei che si attaccano fastidiosamente agli scafi delle imbarcazioni ma che in questo contesto vengono considerati nel senso che il marketing ha assegnato a questo termine. Dal punto di vista del commercio i balani sono infatti quei consumatori che si aggirano per i supermercati con i volantini delle offerte sotto mano e che comprano solo quei prodotti che sono venduti in offerta o meglio ancora sottocosto. Per i gestori dei supermercati e per i commercianti in genere, sono figuri deleteri che rappresentano una fonte di perdita invece che una risorsa, come i loro omonimi del regno animale lo sono per i naviganti e per le imbarcazioni.
La seconda premessa riguarda il mio atteggiamento nei confronti del marketing in genere. Odio tutto ciò che è marketing. Detesto i saldi, gli sconti e le tariffe differenziate. Per quello che mi riguarda, in un mondo migliore i call center che si occupano di telemarketing non esisterebbero o al più starebbero nel novero degli obiettivi sensibili del terrorismo internazionale.
Sono dell’idea che se un negozio vende un articolo in saldo al 70% del prezzo originario è perché qualcun altro, in regime di non saldi, ha pagato lo stesso articolo un 15% per cento in più del prezzo che il negoziante avrebbe potuto applicare se lo avesse venduto sempre allo stesso prezzo, garantendosi gli stessi incassi.
Sono anche dell’idea che se ognuno di noi, quando interpellato telefonicamente da qualcuno (generalmente al 95% sono gli operatori di telefonia fissa e mobile) che ci vuol vendere qualcosa di cui non abbiamo bisogno, lo mettesse in attesa magari per un quarto d’ora e magari facendogli sentire qualche musica insulsa (io ad esempio gli faccio sentire “Core Mio” di Wilma Goich e Edoardo Vianello) così come fanno “loro” quando siamo noi a telefonare ai call center del servizio clienti di turno per denunciare qualche malfunzionamento; bene, allora il telemarketing non esisterebbe più con grande sollievo di tutti noi.
Tutto questo per dire che ritengo di essere una persona che nulla ha a che spartire con i balani. Tanto più che normalmente tra le corsie del supermercato evito come la peste le offerte promozionali. Questo perché generalmente i prodotti in offerta sono proposti in confezioni per comunità e sono generalmente prossimi alla scadenza e io riesco a far scadere anche il latte a lunga conservazione…
E poi se una cosa costa di più magari è anche perché è più buona, almeno spero…
Ecco nonostante non sia tendenzialmente un balano, in questa mia crociata contro il marketing, ritengo sarebbe opportuno assumere invece comportamenti da balani proprio perché questi ultimi sono i più penalizzanti nei confronti della grande distribuzione.
Viviamo in un periodo in cui il mondo del commercio, ormai in mano alle multinazionali, sta cominciando a mettere a frutto la possibilità, fornita dalle nuove tecnologie, di studiare i nostri comportamenti come consumatori. Cioè i grandi negozi cominciano ad associare il nostro scontrino (cioè quello che compriamo: la nostra lista della spesa, al nostro profilo). Questo prima poteva avvenire solo per gli acquisti operati su internet laddove si è obbligati a registrarsi al sito di e-commerce e a pagare con carta di credito. Tutte cose che lasciano una traccia telematica.
Ma la stessa cosa avviene oramai anche quando ci spostiamo dal mondo elettronico al mondo reale. Alzi la mano chi non possiede la carta fedeltà del proprio supermercato di fiducia. Io personalmente ho quella di PAM. E così al prezzo di qualche euro di sconto al mese i grandi supermercati si comprano la possibilità di associare il nostro scontrino al nostro profilo. Nel mio caso la cosa avviene anche con la catena tedesca Metro.
Non so se ci avete mai ragionato su, ma dalla nostra lista della spesa si possono ricavare un sacco di notizie interessanti. Se sono single oppure se convivo (un maschio single per esempio comprerà prodotti per la barba ma mai assorbenti), se sono a dieta (in questo caso nel mio scontrino ci saranno prodotti ipocalorici e dietetici), quale è il mio budget mensile medio riservato alla spesa, se compro sempre le stesse marche o se vario, ecc. Da questi dati opportuni software tracciano il mio profilo di consumatore e mi propongono offerte e sconti personalizzati. Per esempio PAM a fine della spesa mi stampa insieme allo scontrino dei buoni sconto da utilizzare per la spesa successiva e Metro mi spedisce per posta un carnet di sconti su specifici prodotti.
Generalmente tutte le offerte sono finalizzate a far spendere più soldi al consumatore o comunque a parità di spesa ad aumentare il ricavo del commerciante. Le offerte mi invogliano infatti, a comprare prodotti superflui o un maggiore quantità o a spostare l’acquisto di un prodotto dalla marca che solitamente acquisto verso marche per le quali maggiori sono i margini di profitto del commerciante. Dalla mia esperienza ho potuto notare che generalmente i buoni sconti sono di entità limitata per quei prodotti che comprerei comunque mentre sono notevoli per quei prodotti che non comprerei mai.
Inutile dire, tra l’altro che dal mio comportamento il supermercato può evincere se sono un temuto balano. Nel caso non potendomi ancora impedire di entrare fisicamente nel supermercato verrò osteggiato in ogni modo lecito. Verrò così eliminato dalle mailing list riportanti le offerte o quest’ultime verranno limitate ad una scontistica minima sul tartufo o sullo champagne millesimato.
Come ci si può difendere da tutto ciò? Il primo metodo consiste nel non aderire mai alle tessere fedeltà, nel non registrarsi nelle campagne promozionali e alle tessere sconto. Personalmente non credo che arroccarsi su posizioni di difesa ad oltranza della propria privacy sia l’opzione migliore. Ritengo che sia un po’ una battaglia contro i mulini a vento e che inoltre in un ipotetico bilancio siano più gli aspetti negativi di quelli positivi nell’alienare le proprie informazioni personali.
Il secondo metodo consiste nel combattere il grande commercio con le sue stesse armi. Consiglio di non limitarsi ad una sola tessera fedeltà ma di creare almeno un altro vostro avatar utilizzando magari l’indirizzo di lavoro e le generalità di un amico. Se siete sposati e avete dei figli, con una tesserà fedeltà potrete fare la spesa “generalista”, con l’altra farete quella spesa che può far indurre il sistema a pensare che siete maschi e single ma anche analogamente donne e single. Quando il sistema vi avrà etichettati come single maschi e vi proporrà forti sconti per pannolini, assorbenti dando per scontato che non li acquisterete mai allora e solo allora il balano che è in voi verrà fuori e darà il via alla razzia sottocosto. E poi via verso un nuovo avatar…
Balani, alla riscossa!

martedì 18 maggio 2010

PostaCertificat@


Alla fine mi sono deciso. L’altro giorno ho richiesto l’attivazione di una casella di posta elettronica certificata (PEC) che il governo italiano offre gratuitamente a tutti i suoi amati cittadini. Voglio subito precisare che ho aderito all’iniziativa non perché particolarmente interessato al prodotto in se, ne perché, come sicuramente state malevolmente pensando, non sappia resistere alla lusinga di qualsiasi cosa mi venga fornita a titolo non oneroso. Infatti da più di un anno possiedo una casella di PEC che altrettanto gratuitamente mi fornisce l’ordine professionale a cui appartengo.
Se l’ho fatto è stato solo per timore di finire nel novero di coloro che dovendo dei soldi al fisco o a qualche ente pubblico, magari a causa di qualche cartella esattoriale “pazza” si ritrovano con la casa pignorata senza che gli sia stato notificato alcunché. In realtà credo di dover nulla al fisco o a chicchessia ma la puntata di Report sul modo, a dir poco disinvolto, che Equitalia utilizza nella sua attività di riscossione delle cartelle esattoriali, mi ha messo sul chi vive.
Visto che la pubblica amministrazione utilizzerà la PEC per comunicare con i cittadini, sarà più difficile per Equitalia sostenere di aver notificato ingiunzioni di pagamento che in realtà pare non ha sempre l’interesse di notificare con quello zelo che dovrebbe essere necessario.
E poi avevo letto o sentito da qualche parte che il governo avrebbe pubblicato su internet sull’apposito portale web l’elenco di tutti gli indirizzi di PEC. Vuoi vedere, mi son detto, che riesco a porre fine all’incubo peggiore che ha rovinato tanti dei miei sabati mattina? Quale? Ma chiaramente la presenza nella casetta delle lettere di casa del maledetto avviso di giacenza di una raccomandata con avviso di ricevimento! Che altro?
Ho la sfortuna di non essere mai a casa, visto che lavoro, durante l’orario di consegna della posta. A questa sfortuna si somma la sfortuna ulteriore che il palazzo dove vivo non è fornito di portiere. Così ogni qualvolta mi viene recapitata una raccomandata con ricevuta di ritorno sono costretto ad andare a ritirarla all’ufficio postale. Chiaramente di sabato mattina perché gli altri giorni ho il vizio di lavorare, mettendomi in coda ai tanti che come me si trovano nelle mie stesse sfortunate condizioni. Che poi perché uno deve mandare una raccomandata con ricevuta di ritorno e non una raccomandata normale? Bo! Non ho ancora trovato nessuno che ha saputo darmi una spiegazione soddisfacente. La ricevuta di ritorno prova che mi hai spedito una lettera ma non prova niente circa il suo contenuto. Posso sempre dire che la busta era vuota. O no?
Comunque in ogni caso il ricorso sempre più intollerabilmente frequente a tale prodotto postale appare quasi sempre ingiustificato.
E così con il cuore ricolmo dalla speranza di non essere pirateggiato da Equitalia e di vedere recapitate tutte le raccomandate con avviso di ricevimento comodamente sullo schermo del mio PC senza doverle andare a ritirare, dopo file inenarrabili, alla posta; mi sono collegato al sito www.postacertificata.gov.it e ho fatto la mia richiesta di attivazione della PEC.
Sul sito e sulle modalità del suo utilizzo: nulla da eccepire: chiaro, facile, veloce. Ho compiuto l’operazione di iscrizione on line in pochi minuti. Poi però leggo che per perfezionare l’attivazione della PEC devo recarmi presso un ufficio postale munito di un documento di identificazione valido e del codice fiscale. Ma perché? Perché non posso scannerizzare questi documenti e mandarglieli via e-mail o magari via fax come ho fatto per attivare la PEC dell’ordine degli ingegneri? Poi mi faccio coraggio, mi dico che tanto è una delle ultime volte che accade, e vado alla posta.
Faccio la mia brava fila, parlo con il giovane impiegato -stranamente sembra anche simpatico-, gli do la mia carta d’identità e il mio tesserino sanitario contenente il codice fiscale. Lui da parte sua coscienziosamente ne fa delle fotocopie e poi controlla che i dati corrispondano esattamente a quelli che io avevo precedentemente inserito nel sito. “Tutto a posto” mi dice, “ma adesso viene la parte piu lunga”. Al mio sguardo interrogativo mi dice che adesso deve stampare il contratto. In duplice copia! Ci vorranno almeno venti minuti!
Lancia la stampa e se ne va. E io capisco subito che non stava affatto scherzando. Sì perché la stampante è un enorme vecchia stampante ad aghi che vibrando e sferruzzando sonoramente riesce a produrre solo poche righe per minuto. L’impiegato torna che la prima pagina non è ancora terminata. “Ma Brunetta non poteva fornirvi di una stampante decente?” gli chiedo sorridendo. “Brunetta sta dentro la stampante!” mi risponde serio e se ne rivà.
Effettivamente le dimensioni mastodontiche e il modo in cui la stampante vibra facendo muovere anche il tavolo su cui è poggiata possono far legittimamente pensare che Brunetta vi sia contenuto veramente e che vi si muova, come suo solito, in maniera inconsulta.
Quando ritorna la seconda copia è appena uscita dalla macchina e giace per terra. Firmo una copia del contratto -che meno male che era di una sola pagina- e mi consegna soddisfatto la seconda copia. Il tutto è durato almeno venti minuti, non sto purtroppo scherzando.
Nell’andarmene, curioso come una scimmia di sapere cosa ci potesse essere scritto di così importante nel fantomatico contratto, do una scorsa veloce alla pagina.
“C’è un problema” gli dico “io non sono Ce/op Ef !Cfofefuj e non sono nato a Spnb”.
Si perché nella mia copia del contratto il form è scritto correttamente ma nei campi che dovrebbero contenere i miei dati personali sono inserite sequenze di caratteri casuali. Glielo faccio notare. Lui sbianca all’idea di dover ristampare quelle due pagine. Poi però legge la sua copia e tira un sospiro di sollievo. La sua copia è corretta! Me ne farà una fotocopia.
Ma perché non l’ha fatta subito la fotocopia, invece di stampare la seconda copia? Avremmo risparmiato dieci minuti buoni! Bo!
Finalmente ho la mia copia corretta del contratto, con tanto di timbri postali tondi –che sulla mia copia non c’erano-. Siamo nel 2010 ma non c’è niente da fare: in Italia solo i timbri tondi danno il crisma dell’ufficialità. Penso al fatto che dalla sinergia di Poste Italiane S.p.A., Telecom Italia S.p.A. e Postecom S.p.A mi sarei potuto un software di stampa migliore e me ne torno in ufficio.
Qui mi collego al sito e contro ogni mia previsione la mia nuova PEC è attiva. Provo a mandarmi una mail dalla mia vecchia PEC dell’ordine ma niente. Allora provo a fare il contrario ma niente lo stesso. Esprimo il mio disappunto a Luca che mi dice che la posta certificata del governo è una posta certificata finta, che si possono inviare e ricevere mail solo con la pubblica amministrazione.
Maledizione! Ma allora continuerò a ricevere avvisi di giacenza di raccomandate inutili che rompicoglioni non statali mi mandano più volte al mese?
FANCULO LA POSTA CERTIFICATA!

lunedì 10 maggio 2010

DE NUCULARITATE


Oggi come si può evincere dal titolo del post, voglio trattare di un argomento serio su cui esprimere delle osservazioni personali. Queste ultime molto meno serie.
L’argomento del giorno è il ritorno dell’Italia o per meglio dire del governo italiano - che non sono proprio la stessa cosa, al nucleare per la produzione dell’energia elettrica.
Come premesso le osservazioni che seguono sono del tutto personali ma sono per quanto possibile ragionate. Si perché nell’affrontare un argomento così delicato non si dovrebbe mai perdere di vista la ragione come guida da seguire nell’affrontare argomenti che si prestano per la loro complessità a strumentalizzazioni ideologiche e a controversie di vario tipo.
Ma siamo in Italia e tutto ciò che ha a che fare con la politica è diventato oggetto di tifo fazioso da stadio, per cui da una parte ci sono i sostenitori dei partiti al governo che sono per il nucleare ad ogni costo: quelli che con una barretta di uranio ci alimenterebbero anche lo scaldabagno di casa. Magari di casa del vicino perché non si sa mai…
Dall’altra parte ci sono i detrattori del governo che sono contrari al nucleare a prescindere, quelli a cui, per capirci, appartengono quegli amministratori locali che scrivono “comune denuclearizzato” nella targa di benvenuto al loro paese salvo poi servirsi del reparto di medicina nucleare dell’ospedale del paese vicino in caso malaugurato di bisogno.
Premetto innanzitutto che ritengo che le centrali nucleari di terza e quarta generazione (quelle che si dovrebbero costruire in Italia sono quelle di terza visto che la tecnologia di quarta generazione è ancora in studio e non ancora disponibile dal punto di vista operativo) siano sufficientemente sicure. E dico ‘sufficientemente’ perché nel campo della tecnologia, per quanto sofisticata come in questo caso, la sicurezza assoluta non esiste. Quindi sulla sicurezza delle centrali non nutro perplessità particolari a patto che siano progettate e costruite con serietà, non con il cemento depotenziato dell’autostrada Messina-Palermo, tanto per capirci. E a patto che con altrettanto serietà vengano gestite.
Ma sul versante dei controlli ho sentito già cose che non mi sono piaciute per niente..
Infatti le nuove centrali una volta costruite prima di essere messe in esercizio subiscono una procedura di licensing attraverso la quale un organismo di verifica, controlla che le nuove centrali dispongano di tutte le misure di sicurezza necessarie e che siano state costruite rispettando il progetto e tutte le norme tecniche applicabili. Solo se tutti questi controlli danno esito positivo e solo allora, la nuova centrale otterrà la licenza per poter entrare in esercizio. Ora non bisogna essere scienziati per capire che chi opera questa fase di licensing debba essere un organo terzo che non abbia preso parte al processo di progettazione e costruzione e che non abbia interesse alcuno a che la centrale entri in esercizio oppure no, nel caso risultasse non rispondente a tutti i stringenti criteri di sicurezza. Il governo italiano sembra orientato invece a nominare esso stesso le società di licensing e a fissare in massimo un anno il tempo per completare la procedura autorizzativa stessa. E ci risiamo: il controllato che si controlla da solo! E poi in tutto il mondo la fase di licensing dura svariati anni. Chi siamo noi per poter fissare un termine ultimo così breve? In questo campo la fretta è un lusso che non ci si può proprio concedere. I rischi sono altissimi e insostenibili.
La possibilità che il governo del ‘fare’ diventi il governo del ‘far male’ va scongiurato con ogni mezzo. A parte questo, ripeto: credo che le nuove centrali siano sicure.
E’ su tutto il resto che nutro più di una perplessità…
La prima è di ordine metodologico: l’Italia ha deciso di rinunciare all’utilizzo del nucleare con un referendum popolare. Non vedo perché non si dovrebbe rifare un nuovo referendum per ritornare su questa decisione. L’attuale governo ha si la maggioranza relativa degli elettori votanti ma non rappresenta certo la maggioranza assoluta degli italiani!
La seconda perplessità è di tipo economico. La scelta del nucleare è giustificata con esigenze di ordine strategico di diversificazione delle fonti energetiche e soprattutto con la prospettiva di vedere ridotto il costo dell’energia elettrica. Ma siamo così sicuri che l’energia prodotta dalle nuove centrali nucleari sia così economica? Su questo argomento, sull’economicità cioè delle centrali nucleari, ho letto e sentito di tutto e il contrario di tutto. Si tratta alla fin fine di banali conti economici che ognuno di noi dovrebbe poter capire senza troppe difficoltà se spiegati con sufficiente chiarezza. Il problema è che sul bilancio pesano come macigni alcuni parametri che sono ammantati da un alone di aleatorietà e che i sostenitori e i detrattori del nucleare addomesticano a favore dei loro convincimenti. Ora su alcuni di essi non ci dovrebbero essere incertezze: il costo di una centrale e il tempo necessario alla sua realizzazione dovrebbero essere dati certi e non misteri esoterici. Il problema è che anche su questi dati non c’è assoluta chiarezza senza dimenticarci che siamo in Italia, il paese dove la differenza tra un costo preventivato ed un costo a consuntivo e spesso volentieri è superiore al 100%!
L’idea che mi sono fatto è che la scelta del nucleare è al limite dell’economicità. Sulla convenienza o meno peseranno soprattutto il costo futuro dei combustibili fossili tra cui anche quello dell’uranio su cui è possibili fare previsioni solo approssimative.
A proposito dell’uranio quello che è certo, ma sono cose che il governo si guarda bene dal dire, è che la produzione odierna di uranio minerale è al di sotto delle attuale richiesta mondiale. In altri termini l’uranio estratto dalle miniere di uranio copre solo una parte dell’effettivo fabbisogno totale. La differenza tra uranio estratto e uranio effettivamente utilizzato dalle centrali che a seconda delle fonti varia dal 12 al 30%, viene coperta dall’uranio proveniente dallo smantellamento degli arsenali atomici di Russia e USA e dagli stock strategici. Ora non bisogna essere delle aquile per capire che la quota parte dell’uranio proveniente dal disarmo e dalle scorte strategiche delle superpotenze è destinato ad esaurirsi rapidamente. Si può immaginare un aumento della capacità estrattiva che però a meno di scoperte di nuovi importanti giacimenti, a mala pena potrà soddisfare la richiesta delle attuali centrali ma difficilmente di nuove. Insomma lo scenario dell’approvvigionamento dell’uranio è tale per cui la domanda supera e supererà sempre più l’offerta con conseguenze dirette sull’aumento del prezzo dello stesso. Tra l’altro già adesso il prezzo dell’uranio è in fase di crescita e tutti gli analisti economici sono pronti a scommettere su aumenti sensibili nei prossimi decenni.
Ecco: nell’analisi costi-benefici che valore del prezzo dell’uranio viene o verrà utilizzato? Quello di dieci anni fa in cui il costo era basso e stabile o quello che avrà presumibilmente tra qualche decennio quando le nuove centrali italiani saranno pronte ad entrare in esercizio?
Se la scelta del nucleare viene giustificata dalla necessità di non dover dipendere quasi totalmente da gas russo, perché dovrebbe essere più bello dover dipendere dall’uranio russo, visto che la Russia è tra i principali produttori anche di uranio?
La terza perplessità rappresenta il motivo principale per cui ad oggi sono contrario alla scelta nucleare: il problema delle scorie. In un eventuale referendum sul tema se si dimostrasse ragionevolmente la convenienza economica delle centrali nucleari, voterei a favore ma a patto che si trovi una soluzione vera al problema delle scorie radioattive. La realtà odierna è che il problema delle scorie è lungi dall’essere risolto. Il problema ad oggi nei paesi che possiedono centrali nucleari è risolto grosso modo nella stessa maniera: si fa un buco nel terreno, meglio se in una montagna e meglio se il buco e molto profondo. Poi si prendono le scorie si mettono in bidoni sigillati e magari affogati nel cemento e poi si butta il tutto nel buco e ci si augura che Dio ce la mandi buona…
Questo metodo può andare bene per il breve periodo, ha dimostrato preoccupanti lacune sul medio periodo (mi viene in mente il problema di contaminazione delle falde acquifere avvenuto in Germania in un sito di stoccaggio di bidoni contenenti scorie ricavato in una miniera di salgemma esaurita ed abbandonata. E sul lungo o lunghissimo periodo? Nessuno lo sa o può fare previsioni attendibili.
Questo perché le scorie hanno il difetto non trascurabile, di rimanere radioattive per molti secoli. E nessuno sa, perché non c’è un’esperienza pregressa a tal proposito, come si comporteranno i materiali usati per contenere e schermare le radiazioni a seguito di cento, duecento o trecento anni di radiazioni. Manterranno le loro capacità contenitive o si degraderanno inesorabilmente con conseguenze catastrofiche per l’ambiente? E soprattutto i siti scelti oggi per lo stoccaggio delle scorie perché a basso rischio sismico o di dissesto idrogeologico lo saranno anche tra cento o duecento anni?
Nell’ottica che l’ambiente in cui viviamo l’abbiamo solo preso in prestito dalle generazioni che ci succederanno non mi sento in diritto di lasciargli una eredità così rischiosa sulle spalle.
A proposito di quest’ultimo argomento, ho sentito qualche mese fa in una trasmissione giornalistica un qualche sottosegretario di un qualche ministero dire che secondo previsioni ‘autorevoli’ la tecnologia farà nei prossimi quaranta anni progressi tali da trovare una soluzione definitiva al problema delle scorie radioattive. Ecco allora propongo di rimandare la costruzione delle centrali a tra quarant’anni quando il problema delle scorie sarà finalmente risolto. Se si accettano ragionamenti simili si dovrebbe avere anche il coraggio di dirsi contrari, per esempio, alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina perché tanto tra trenta anni sarà inutile visto che presumibilmente entro tale data ci sarà il teletrasporto. (Me l’ha detto il comandante James Tiberius Kirk!)
Ma queste sono solo opinioni mie personali. Credo che la decisione, visto la delicatezza dell’argomento e delle possibili conseguenze sulla vita di tutti noi, dovrebbe essere presa a maggioranza. Non credo che la decisione debba ricadere solo sull’attuale classe dirigente composta prevalentemente da ultrasettantenni formatisi negli anni cinquanta quando il nucleare veniva visto come l’unica scelta possibile, priva di grosse controindicazioni alla crisi energetica. Classe dirigente, quella attuale che tra trenta anni quando dovrebbero entrare in funzione le prime nuove centrali italiane sarà si spera bella e sepolta. Ed effettivamente, a dire il vero ed a pensare male, trovo sospetta l’adesione incondizionata di certa classe politica, il cui orizzonte temporale normalmente non va mai oltre il proprio mandato elettorale, alla costruzione di impianti di cui non godranno direttamente dei benefici. E soprattutto trovo sospetta la fretta che dimostrano nell’intraprendere questa strada senza ponderare preventivamente, come sarebbe giusto invece fare, i pro e i contro. Forse perché la gestione degli appalti per la progettazione, la costruzione e il controllo delle nuove centrali; i suoi frutti illeciti li può dare immediatamente? Mmm..
Comunque affinché i cittadini italiani possano decidere come è giusto che facciano attraverso un referendum, sull’argomento devono poter essere informati in maniera chiara ed obiettiva. Devono poter cioè sentire le argomentazioni di tutti gli esperti del settore: tecnici, fisici, economisti, medici, geologi, biologi, ecc. quelli a favore e quelli contrari ognuno con uguale diritto di spiegare le sue motivazioni e le sue opinioni purché ogni affermazione venga suffragata da dati obiettivi e documentabili.
Ho come però l’impressione che non è proprio questo quello che aveva in mente Berlusconi quando ha detto che l’opinione pubblica italiana andava preparata e formata. Temo che dovremmo sorbirci altri spot con topo Gigio che in camice bianco ci illustrerà la bontà della scelta nucleare. O peggio ancora: innumerevoli puntate di “porta a porta” in cui un parziale Bruno Vespa di fronte al plastico di una centrale nucleare intervisterà: la Parietti, Crepet e l’immancabile criminologo Bruno su perché le centrali nucleari sono la scelta migliore.
Se questa sarà l’”informazione” che ci verrà propinata nei prossimi mesi sull’argomento, invito tutti sin da ora a riguardarsi alternativamente le puntate dei Simpson riguardanti la centrale “nuculare” – come la chiama Homer – di Springfield. Saranno sicuramente più formative. D’OH!


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Per il logo si ringrazia Lucaft qui ritratto in foto