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lunedì 28 dicembre 2009

AN ITALIAN CHRISTMAS CAROL


Quando l’egoarca fu finalmente lasciato solo, poté riflettere su ciò che gli era successo in quella strana e convulsa serata milanese. Gli passarono davanti agli occhi come in un film le immagini del comizio, della folla dei suoi sostenitori e poi la contestazione di quegli scalmanati eversori vestiti di viola. Lui li aveva arringati con la frase che usava sempre verso i suoi oppositori: “Vergogna! Vergogna! Vergogna!”: semplice ma diretta ed efficace. Allora il suo popolo ringalluzzito dal suo eloquio colto, aveva risposto facendo una ola per conseguenza della quale, molti dei suoi sostenitori non potendo contare più per qualche istante sull’appoggio del bastone o del badante extracomunitario di sostegno erano caduti a terra per la sopraggiunta displasia dell’anca. Alla vista di quei tanti vuoti che si erano formati tra le sue file, il ministro Cipollino si era prodotto allora in un “Chi non salta comunista è, è!” accompagnando le parole con dei sussulti del suo corpo dinoccolato. A quel punto i suoi sostenitori avevano preso a saltare scandendo ritmicamente lo slogan. E per un po’ avevano saltato. Poi però il susseguirsi di micidiali quanto impietosi infarti del miocardio tra quanti tra i suoi fan avevano superato l’età per potersi concedere quelle scalmane, aveva ulteriormente falcidiato le sue fila.

Fu allora mentre tra se e se imprecava contro Cipollino che non ne faceva mai una giusta (e meno male che gli aveva scelto un posto: quello di ministro della cultura, dal quale non poteva fare molti danni), che aveva preso la decisione di scendere dal palco e concedersi un bagno di folla. Avrebbe così sviato l’attenzione generale da quel harakiri collettivo per concentrarla sulla sua persona sorridente. E proprio mentre stringeva tutte quelle mane scarne e tremanti – ma perché proprio lui che così tanto odiava la vecchiaia doveva essere sempre circondato da anziani se si escludeva qualche emulo tronista rintronato e quegli psicolabili fan del GF? – fu allora che fu colpito da qualcosa che gli era stata lanciata contro con violenza. Ricordava l’esplosione di dolore, i denti spezzati, il naso rotto e l’intorpidimento della faccia.

Da lì in poi le cose si erano susseguite convulsamente. Ricordava la corsa in macchina, la faccia trasfigurata dal dolore di Cipollino che gli ricordava quella di Maria Maddalena ritratta in tanta pittura barocca, il cipiglio autoritario di 2232 che da quando era successo quello che era successo non si era staccato neanche per un momento dal telefonino dal quale impartiva ordini perentori a tutto l’universo creato.

“Dovete liberare un intero piano dell’ospedale, ne va della sicurezza dell’egoarca. .. No non mi interessa di dovete mettete gli altri malati, dimetteteli! … Non è possibile?… Va bene, va bene. Allora sgomberate il reparto pediatria: i bambini sono piccoli e un posto dove metterli lo trovate sicuramente. … Non importa, non importa. Fate presto stiamo arrivando”

Eh si, doveva riconoscere che 2232 - lo chiamava così in ricordo dei vecchi tempi quando entrambi facevano parte di quell’organizzazione filantropica. Come è che si chiamava? Vabbè adesso non se lo ricordava forse però era l’effetto della botta in testa – era davvero bravo ad organizzare anche se qualche volta si faceva un po’ troppo prendere la mano. E se lo diceva lui…

Arrivarono rapidamente all’ospedale dove fu fatto entrare da un ingresso secondario e fu fatto salire con una montalettighe fino al piano del reparto di pediatria. Si vedeva che era il reparto era stato evacuato in tutta fretta: nel corridoio insolitamente deserto, i giocattoli per terra e i disegni sui muri tradivano l’origine di quella che era sta l’occupazione immediatamente precedente. Fu aiutato a svestirsi e ad indossare un pigiama di seta che Michela Vittoria Granbella, ministro del turismo, era stata mandata a comprare in fretta e furia nella vicina via Montenapoleone chiusa al traffico per l’occasione. Poi fu fatto accomodare nel lettino per bambini della stanza (d’altronde erano in pediatria) non senza l’imbarazzo evidente di Cipollino la cui faccia aveva assunto tutte le tonalità del rosso. Ma lui in quel lettino ci stava comodo a dispetto di quello che poteva pensare il suo ministro. Poi ci fu la processione di medici di tutte le specializzazioni: dai gastroenterologi agli endocrinologi, dagli otorini ai traumatologi e soprattutto di chirurghi estetici ed estatici, con l'esclusione ben inteso degli psicologi e dei geriatri che avrebbero potuto dire qualcosa di spiacevolmente inopportuno.

Ma ora era finalmente solo e poteva mettere a fuoco quella strana sensazione che lo aveva colto nel momento stesso in cui quell'oggetto l’aveva colpito in testa. Era come se qualcosa fosse successo nel suo cervello e avesse fatto vacillare quelle che erano le sue convinzioni, i suoi valori, le sue certezze fino ad allora granitiche ed immutabili. Certo, il comportamento dell’attentatore non trovava giustificazioni ma gli slogan dei contestatori: “Via la mafia dallo stato” o “Rispetta la Costituzione” non sembravano ora così eversivi come gli erano sembrati fino all’istante prima che venisse colpito. E poi il colore viola non era così tremendo, anzi…

Era tutto preso dalle sue riflessioni quando Cipollino fece irruzione nella sua stanza seguito da 2232 e da Maron Glacé, il ministro dell’interno, che si era unito al gruppo di prefiche accorse al suo capezzale. “Non si preoccupi Sire ho appena mandato a prendere da un elicottero della protezione civile il lettone di Puti…”

Nel vedere il viso dell’egoarca, le parole gli si strozzarono in gola. Era stranamente quieto e pervaso come da uno stato di inaspettata beatitudine e pensare che lui si sarebbe aspettato di vederlo su tutte le furie per l’accaduto e soprattutto perché costretto in quel lettino che evidenziava impietosamente quella che non era certo una statura da corazziere. 2232 approfittò del fatto che Cipollino si era interrotto nel discorso per iniziare a dire: “Sire, bisogna dare notizie alla nazione, rilasciare un comunicato ufficiale in cui si chiarisca in maniera definitiva di chi sono le responsabilità politiche di chi ha armato la mano del folle che ha lanciato contro la Sua persona il souvenir del Cremlino..”

“Non era il Cremlino era una moschea e i maggiori danni maxillofacciali li ha prodotti il relativo minareto!” si affrettò a precisare Maron Glacé.

“Cremlino!” riaffermò con veemenza 2232 che pensava ad Antonio Litoreo (il più pericoloso, perché non controllabile in alcun modo, rappresentante dell’opposizione della sinistra post sovietica) come mandante morale del gesto; “Moschea!” ripeté Maron Glacé con altrettanta veemenza pensando agli imam e agli extracomunitari islamici in genere, quali possibili responsabili.

“Moschea!”. “Cremlino!”. “Moschea!”. “Cremlino!”.

La discussione forbita andò avanti per due minuti buoni prima che i due cominciassero ad azzuffarsi rotolandosi avvinghiati l’un l’altro a terra. 2232 ficcò le dita negli occhi a Maron Glacé il quale però riuscì a divincolarsi e rispose all’offesa mordendogli recidivo il polpaccio. La zuffa fu interrotta bruscamente da una secchiata di acqua gelata lanciata da Gaspar che appena giunto da Roma, aveva prontamente recuperato nel bagno di servizio del corridoio. Ad essere precisi non era proprio un secchio, quello che Gaspar aveva usato ma una padella e anche usata, ma d’altronde in certe occasioni non si poteva certo andare troppo per il sottile.

Sono un uomo del fare io! Pensò Gaspar tra se e se, guardando con il suo sguardo esoftalmico soddisfatto i due contendenti zuppi ma ormai calmi che seduti a terra, guardavano l’egoarca. Ognuno speranzoso che questi gli desse ragione. Ma la faccia rabbuiata del Sire non lasciava presagire nulla di buono.

“Idioti” disse “ora me lo ricordo. Era un souvenir del duomo quello che mi ha colpito in volto. Non potete travisare così la verità, il popolo merita rispetto. Vergogna!”.

A queste parole tutti i presenti nella stanza lo guardarono basiti, increduli alle loro orecchie. Tutti tranne Gaspar che bofonchiando al cellulare, aveva intanto accesso la televisione a forma di testa di topolino – con tanto di orecchie tonde- che era poggiata sul colorato armadio delle Winx.

Sullo schermo apparve la faccia di Emilio Fido quasi irriconoscibile, trasfigurata come era dal dolore, che trattenendo a stento le lacrime con la voce rotta dall’emozione diceva da una delle sue televisioni: “… il nostro Sire, il Sire di tutti gli italiani, è stato oggi pomeriggio oggetto di un barbaro quanto vile attentato. Si trovava, il Sire, oggi ad una manifestazione quando un assassino, un pazzo, un uomo ma meglio sarebbe dire un animale, senza offesa beninteso per gli animali, unica voce stonata tra le tante centinaia di milioni di italiani che erano giunte da tutta Italia ma anche dall’estero, per osannare il nostro Sire, lo ha colpito con un oggetto contundente che.. scusate… mi dicono proprio ora essere un souvenir del duomo…” Poi Gaspar armeggiando con il telecomando fucsia -se la cavava bene con quegli aggeggi tecnologici, non era una caso che avesse ricoperto in passato il ruolo di ministro delle comunicazioni- cambiò canale e dallo schermo emerse il faccione di Antonio Litoreo che livido in volto poiché parlava per interi minuti in apnea senza riprendere fiato, andava dicendo che quell’atto sconsiderato era frutto del clima violento politico che il governo aveva in larga parte contribuito a creare. Ma era il gesto di un folle e che il suo partito politico quel gesto, lo condannava. Quell’ultima parte di frase, la disse però con un tono di voce così flebile che Gaspar fu costretto ad alzare il volume col telecomando per riuscire a sentirla.

Spento che fu il televisore, l’egoarca si rivolse ai suoi sodali - beh a tutti tranne che a Cipollino che nel vedere in TV il volto di Antonio Litoreo, si era infilato gli indici delle mani nelle orecchie per non sentire e si era voltato dall’altra parte per non guardare- e disse “Dobbiamo stemperare i toni! Non possiamo dividere ulteriormente l’Italia, più di quanto non sia già divisa. In fin dei conti, poteva andare peggio è vero, ma non è successo poi nulla di così grave. E poi Litoreo ha in parte ragione – ecco l’aveva detto! Ma cosa gli stava succedendo? – dobbiamo cambiare rotta: aprire più verso l’opposizione, prendere decisioni condivise. E adesso lasciatemi solo. Voglio riposare. E per favore uscendo portatevi via Cipollino”.

I suoi uomini rimasero impietriti nell’ascoltare quelle parole, ma cosa stava succedendo al loro capo? Non avevano risposte. E così, esterrefatti come erano, presero Cipollino di peso e uscirono dalla stanza. Appena fuori cominciarono a parlare tutti insieme concitatamente. Chi li avesse ascoltati dall’esterno avrebbe sentito uscire da quel consesso le parole: ”Elettroshock”, “Stress post traumatico”, “Possessione demoniaca”, “Schizofrenia“. Alla fine, una volta tanto concordi su qualcosa, decisero di far fare tutte le indagini cliniche possibili per scongiurare eventuali cause fisiologiche dell’insano comportamento e di far venire il suo confessore nell’evenienza che le cause fossero state invece di natura trascendente.

Rimasto finalmente solo l’egoarca pensò che poi alla fine, non tutti i mali vengono per nuocere e che di tutte le esperienze, belle o brutte che siano, bisogna prendere solo il lato positivo delle cose. In fin dei conti provava si dolore ma ora grazie al fatto che un paio di denti si erano spezzati poteva finalmente serrare le labbra. La sua arcata dentaria conteneva troppi denti e troppo larghi per la sua estensione e questo gli causava l’impossibilità di chiudere le labbra così che aveva stampato sul volto un sorriso innaturale 24 ore su 24, anche durante il sonno. Ora che due denti non c’erano più, poteva finalmente tenere le labbra chiuse con buona pace dei muscoli facciali che finalmente potevano rilassarsi sgravati dalle tensioni a cui erano precedentemente costretti. Non male!

E poi il clima di odio che si respirava nel paese che pure lui, certo non solo lui, aveva contribuito a fomentare andava fermato. Le parole d’ordine del suo governo da lì in avanti sarebbero state: amore e tolleranza!

E finalmente si addormentò sereno come non gli accadeva da molti, troppi anni.

Il suo sonno quieto fu interrotto bruscamente da don Virzì, il suo confessore e guida spirituale, che irruppe letteralmente nella stanza e si esibì uno sproloquio infervorato.

“…occhio per occhio, dente per dente – è scritto nelle Scritture …“ Ma all’egoarca quelle parole non interessavano era sereno e sicuro di quanto aveva deciso.

Di fronte a quell’impassibilità il prete continuò con rinnovato fervore: “ … - nessuna persona votata allo sterminio potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte. – è scritto nel Levitico…”

Ma la faccia dell’egorca continuava ad essere impassibile, insensibile a quelle parole che in altri tempi l’avrebbero infiammato.

“… Signore degli eserciti, beato l’uomo che in te confida. – è scritto nel libro dei Salmi…” A quelle parole un sorriso si stampò sulla faccia di La Ronfa, che si sentì chiamato direttamente in causa. La Ronfa era il ministro della difesa che era appena arrivato da Roma alla testa di una colonna di blindati pronto a stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di colpo di stato per quanto improbabile.

“Ma nelle Scritture sta anche scritto: - Perdona e ti sarà perdonato. “ non poté fare a meno di dire l’egoarca. A quelle parole il prete divento paonazzo, le vene della gola gli si gonfiarono: “Ma questo” proruppe “l’ha detto quel capellone eversivo e contestatore ingrato nei confronti del Padre…” A quelle parole 2232, La Ronfa e Maron Glacé presero di peso il prete che urlava come un ossesso indemoniato e lo portarono via onde evitare scismi che avrebbero diviso ancora di più gli Italiani.

Alla fine, ormai si era fatta notte, l’egoarca fu lasciato solo a riposare nella speranza che la notte avrebbe portato consiglio e con esso la normalità perduta.

E l’egoarca si addormento sereno. E il suo sonno fu ricco di sogni bellissimi. Non sognò di donne statuarie e lascive come sempre più spesso gli accadeva negli ultimi tempi ma di un Italia civile. Sognò di mari e fiumi limpidi e non inquinati, di energia prodotta col sole, di città belle con case e quartieri belli e vivibili, di italiani che erano fieri di pagare le tasse perché in cambio ricevevano servizi da far invidia a quelli dei paesi del nord Europa. Di scuole ed università con fondi per studenti e per la ricerca, dove i ricercatori non erano costretti ad espatriare ma anzi erano gli stranieri che venivano in Italia a studiare. Sogno di un Italia dove gli stranieri si integravano con gli italiani, dove destra e sinistra politica collaboravano per il bene comune, dove i giornali riportavano notizie vere e dove le televisioni non facevano a gara nel mostrare il peggio, alla ricerca dissennata di qualche spettatore in più.

Quando si risvegliò aveva chiaro in mente cosa avrebbe fatto. Certo tutte quelle cose non sarebbe stato facile realizzarle ma lui avrebbe contribuito al fatto che quantomeno fosse possibile tentare di realizzarle. Si sentiva carico di energia positiva e pronto affrontare un nuovo giorno che per lui sarebbe stato nuovo in tutti i sensi.

Era ancora notte fonda, almeno da quello che appariva dall’orologio a forma di Minnie appeso alla parete rosa a pois, ma lui non aveva più sonno. Allora si alzò dal letto si infilò delle pantofole con la testa di renna che qualche bambino aveva evidentemente dimenticato lì vicino al lettino e uscì dalla stanza.

Il corridoio era illuminato dalla luce fioca delle luci notturne e dalle luci lampeggianti dell’albero di Natale che stava verso una estremità del corridoio. All’altra estremità una doppia porta con oblò a vetri divideva il reparto dalla restante parte del piano. Il silenzio era totale. Si avvicinò alla porta e guardò attraverso gli oblò e vide allungate sulle poltrone della sala d’aspetto le sue guardie del corpo. Erano tutte addormentate tranne Johnny Tembo il capo della sua scorta che era intento a vedere un vecchio film in bianco e nero in un piccolo televisorino portatile. La vista di Johnny, quel gigante di muscoli dallo sguardo buono, lo rassicurò. Se solo ci fosse stato lui quel pomeriggio a proteggerlo! Nulla di quello che era successo, sarebbe successo. Ma Johnny proprio quel pomeriggio aveva chiesto un permesso per assistere alla rappresentazione pomeridiana della “Carmen” di Bizet… Eh si perché era un personaggio pieno di contraddizioni: era stato membro della legione straniera ma era appassionato di letteratura latina, soprattutto quella dell’età di Cesare – quante volte per impreziosire un discorso gli aveva chiesto di suggerirgli un detto in latino pertinente-; era esperto di arti marziali e di armi ma aveva “Sunday Morning” dei Velvet Underground, come suoneria del cellulare. Non aveva paura di niente e di nessuno a parte il terrore irrazionale per gli elefanti che esorcizzava tatuandosi sugli avambracci possenti, teneri elefantini colorati di tenui colori pastello. Ma di elefanti in Italia non ce ne erano e non potevano interferire negativamente sul suo lavoro…

Decise di lasciare Johnny al suo film e si diresse verso l’altra estremità del corridoio mentre dal televisore oltre la porta giungevano le note ovattate di “Moon River” cantata da Audrey Hepburn.

Si diresse verso l’albero di Natale lungo il corridoio deserto, se si faceva eccezione per la sagoma di Topo Gigio appesa all’attaccapanni vicino alla porta della sala dottori. L’idea di usare giovani ricercatori di medicina vestiti da Topo Gigio per vaccinare contro l’influenza AH1N1 quanti più pazienti possibile, anche a loro insaputa, era stata presa da lui insieme al viceministro Ziofa. Ma era successo tempo addietro quando lui era ancora un’altra persona.

Quando arrivò in prossimità dell’albero, si ritrovò a fissare le palle colorate appese, illuminate dalle lucine intermittenti. La visione era quasi ipnotica, c’era una quiete estrema tutt’intorno che lo pervadeva intimamente. Si lasciò andare ai suoi pensieri e come nel racconto di Dickens lo Spirito dei Natali Passati si materializzo all’interno di quella palla di natale traslucida. All’interno di quella palla vide le immagini di un Natale di parecchi anni addietro...

Non era un Natale di un anno preciso in particolare ma uno che li conteneva tutti. Quelli degli anni della sua giovinezza. Natali passato nel suo studio a lavorare, a pensare: alle acquisizioni, alle alleanze, alle strategie, alle protezioni necessarie per far prosperare le sue aziende in rapida espansione. Si rivedeva più giovane, seduto alla sua scrivania con alle spalle l’enorme libreria piena di quei libri che non aveva mai avuto il tempo e la voglia di leggere ma che qualcun altro aveva letto al posto suo. E poi le sentiva: le voci, le voci dei suoi figli provenire dalle stanze attigue felici non tanto per i regali sicuramente bellissimi e ricchissimi che lui aveva fatto acquistare alla sua assistente, ma quanto perché giocavano con gli uomini addetti alla sua protezione che ormai erano diventati come persone di famiglia e andavano a colmare quei vuoti affettivi che lui aveva colpevolmente lasciato. E poi vedeva lo sguardo triste di sua moglie quasi presago di quanto sarebbe successo in futuro.

Un brivido gli percorse la schiena. “Quello non sono più io, io ora sono diverso: un’altra persona: una persona migliore” si trovò quasi ad urlare. Poi l’immagine come era apparsa svanì e lui si ritrovò a fissare l’albero di Natale con l’angoscia di conoscere quello che sarebbe apparso dopo.

E infatti quello che apparve dopo fu lo Spirito del Natale Presente. Si ritrovò catapultato all’interno di scene domestiche di famiglie di precari: di padri e di madri di mezza età che senza più un lavoro o comunque senza un lavoro stabile, si vedevano costretti, con la morte nel cuore, a chiedere ai propri genitori di far la spesa per loro, per avere anche loro la possibilità di imbandire un pranzo di Natale decente e non vergognarsi così di fronte ai loro bambini. Vedeva poi immagini di genitori tristi e anziani che erano costretti a scambiare gli auguri di Natale con i propri figli, attraverso delle video chat su internet. Perché i loro figli erano stati costretti, benché laureati a pieni voti, a cercarsi delle opportunità di una vita migliore oltre oceano. L’egoarca aveva gli occhi sbarrati da un senso di angoscia. Si senti sulle spalle il peso di quelle responsabilità. Certo non era solo sua la colpa di quanto aveva visto ma certo lui non aveva fato nulla per evitare che potesse accadere.

Poi fu la volta dello Spirito dei Natali Futuri. Qui le visioni erano frammentarie e vaghe. Si vedeva seduto ad una tavolata ridere e scherzare ben voluto dagli altri commensali ma anche solo seduto su una veranda con vista su una spiaggia bianca contornata di palme con in testa un bianco Panama dalle larghe tese. E c’era un albero di Natale su quella veranda e ragazze bellissime in costumi da bagno colorati, perché faceva caldo. Ma quel contorno non faceva che acuire quel senso di solitudine e di tristezza che sentiva chiaramente attanagliarlo.

Poi tutto svanì. E si ritrovò solo, l’uomo più solo del mondo, di fronte a quell’albero. Avrebbe voluto correre da Johnny Tembo e abbracciarlo ma non lo fece. Si ritirò invece nella sua stanza con la ferma convinzione che avrebbe fatto tutto quanto era nelle sue possibilità, ed era molto, per cambiare le cose.


TO BE CONTINUED


martedì 22 dicembre 2009

HADZA PEOPLE (Seconda parte)


Continuando a leggere l’articolo del National Geographic mi incuriosisce un altro episodio interessante occorso al reporter ospite del villaggio degli hasabe. Questi per vincere la ritrosia degli africani, comprensibilissima visto le difficoltà linguistiche e le differenze culturali in gioco, aveva mostrato loro un suo album fotografico con scatti riguardanti la sua vita privata. Era un modo per rompere il ghiaccio e per cercare di trovare degli argomenti comuni su cui iniziare un dialogo. Gli hasabe avevano guardato con interesse le sue foto personali e quando voltando pagina avevano visto la foto del suo gatto, quello che era l’anziano del villaggio, aveva chiesto con assoluta naturalezza: “Che sapore ha?”

La cosa mi ha fatto sorridere perché mi è ritornata in mente, con nitidezza di dettagli, la battuta di caccia che quella mattina di due estati fa, nel pieno bush della Tanzania, facemmo insieme ad un cacciatore hasabe. Eravamo partiti all’alba, faceva un freddo cane. Noi eravamo vestiti con pile e giacche a maniche lunghe; lui, l’hasabe, era praticamente nudo a parte un paio di vecchi pantaloncini sdruciti e un paio di sandali fatti con vecchi copertoni. Era armato di un solo arco rudimentale e di un paio di frecce sbilenche. Quello che mi ricordo è soprattutto la fatica che facemmo per riuscire a stargli dietro. Si muoveva con passo spedito, quasi di corsa, seguendo tracce di animali sul terreno arido e polveroso che vedeva solo lui. La prima preda a cadere vittima della sua abilità di arciere fu una specie di fagiano nero che avevamo seguito ininterrottamente per una buona mezzora e che ebbe la malaugurata idea di posarsi sul basso ramo di un brullo alberello. La freccia fu scagliata da una distanza ravvicinata ma il tiro fu preciso e letale.

L’hasabe non pago della piccola preda, si rimise subito sulle tracce di un'altra preda. Questa volta l’inseguimento durò non meno di un’ora. Il cacciatore correva scrutando il terreno in cerca di tracce, poi quando le trovava si fermava per studiarle e non appena arrivavamo anche noi sfiniti e trafelati ripartiva subito impietoso. Chissà cosa stavamo inseguendo? Sicuramente una preda grossa e magari potenzialmente pericolosa… Capirete la delusione quando vedemmo cadere trafitto da due frecce scagliate in rapida successione un gatto selvatico e neanche tanto grosso!

Noi eravamo delusi ma l’hasabe al contrario sembrava fiero della sua preda e orgoglioso delle sue capacità venatorie. Punti di vista! Noi da bravi turisti ci saremmo aspettati qualcosa di più suggestivo e pittoresco, lui, l’hasabe si era procurato il cibo sufficiente per lui e per il suo villaggio e tanto gli bastava. Tornando verso il villaggio, guardando il povero gatto esanime con il collo fissato alla cintola del cacciatore un altro sentimento si assommava a quel senso di delusione: il terrore che l’hasabe ci invitasse a pranzo!

Il gatto per noi è un animale domestico da compagnia, per gli hasabe è solo cibo: nulla di più. Per questo la domanda “Che sapore ha?” posta dall’hasabe al reporter del National Geographic è più che legittima. Magari il gatto del giornalista era un siamese così diverso da un gatto selvatico da giustificare la supposizione di gusti simili ma diversi.

Ripensando a quei giorni tra gli hasabe, devo dire che fu proprio la caccia la cosa che più mi è rimasta impressa di quell’esperienza nel bush. E ora so con certezza che la cosa non è valsa solo per me. Qualche giorno fa Elena, una ragazza di Milano che era con me in Tanzania insieme a “Faina” il suo compagno (così soprannominato da me per una sordida storia di polli in quel di Arusha) mi ha scritto su Facebook riguardo al loro piccolo figlio di un anno: "Adesso gli stiamo insegnando a procacciarsi del cibo da solo...il gatto dei vicini è molto a rischio!".

Tanti auguri al piccolo hasabe milanese!




giovedì 17 dicembre 2009

HADZA PEOPLE (Prima parte)


Lo so, lo so... Vi aspettavate un’altra mirabolante puntata sul viaggio in Mozambico dell’estate scorsa. Ma oggi vi propongo qualcosa di diverso. Un salto spazio temporale: di circa 1200 km più a nord nello spazio e di un paio d’anni nel tempo rispetto, appunto, al Mozambico di quest’estate.

Ci sono cose che che rimangono sepolte nella nostra memoria per anni. Rimangono tranquille coperte dai ricordi delle esperienze personali che a loro si sono succedute nel tempo. E poi quando ce ne siamo quasi completamente dimenticati, succede qualcosa di inaspettato che ce le fa riaffiorare alla mente. E a quel punto nel giro di pochi giorni inaspettati si susseguono altri eventi che quel ricordo ci rievocano. Come se tanti episodi tra loro slegati si siano dati appuntamento per un rendezvous tanto casuale quanto fortuito di cui noi siamo partecipi spettatori.

Qualche domenica fa stavo a pranzo dai miei. A fine pranzo, in attesa del caffè, stavo leggendo l’ultimo numero del National Geographic ed in particolare un articolo che parlava di una particolare etnia della Tanzania centrale gli Hadza. L’articolo mi incuriosisce perché io in Tanzania ci sono stato due anni fa. Il nome Hadza non mi dice niente ma la descrizione che l’autore ne fa, quella si, che riaccende nel mio cervello qualche sinapsi interrotta. Leggo infatti che gli Hadza sono gli abitanti del “bush” che si estende tra il lago Eyasi e il Serengeti, sono un popolo di cacciatori e raccoglitori e vivono come vivevano i loro antenati migliaia di anni fa. Vanno a caccia quando hanno fame, non coltivano la terra ma si limitano a raccogliere tuberi e bacche o al più il miele dagli alveari, non hanno regole o calendari e neanche una religione.

A leggere queste cose mi ritorna in mente il fatto che anche noi in Tanzania abbiamo visitato una tribù di boscimani (gli abitanti del bush), partecipando addirittura ad una mitica caccia nel bush. Ma il nome di questa etnia non me lo riesco proprio a ricordare.

Poi arriva il caffè, me ne devo andare e la cosa finisce lì. Poi però il giorno dopo il nome di quei boscimani mi riaffiora alla mente: hasabe, si chiamavano hasabe! Hadza, hasabe... ma vuoi vedere che sono la stessa cosa... Wikipedia mi viene allora in soccorso: “The Hadza people, or Hadzabe'e, are an ethnic group in central Tanzania, living around Lake Eyasi in the central Rift Valley and in the neighboring Serengeti Plateau...Eh si gli hadza e i miei hasabe sono proprio la stessa cosa.

A quel punto mi collego col sito del National Geographic e mi finisco di leggere l’articolo (anche se questa volta in inglese). Gli hasabe (adesso che me ne sono riappropriato concedetemi di chiamarli, anche se erroneamente, così) parlano una loro lingua nativa diversa dallo swahili diffusamente parlato nel resto della regione. Il loro idioma ed il fatto che vivono in una zona semidesertica e inospitale li ha isolati dal resto del mondo e oggi vivono esattamente come vivevano 10.000 anni fa.

Beh questo vale per la tribù visitata dal National Geographic ma un po' meno per quella visitata da noi che vivendo al limite del loro territorio aveva contaminazioni con le altre etnie e con i turisti in visita al lago Eyasi per i quali organizzava balli tipici e battute di caccia. Il giornalista parlava poi delle difficoltà incontrate, nonostante l’ausilio di un interprete, nell’organizzare la spedizione. Dopo un primo contatto iniziale il reporter aveva concordato di ritrovarsi con l’anziano della tribù dopo tre settimane in prossimità di un dato albero. Fissare l’appuntamento non era stato facile. Gli hasabe ignorano il concetto di ora, settimana o mese. A complicare le cose c’era anche il fatto che gli hasabe non hanno parole per esprimere numeri più grossi tre o quattro. E poi anche gli alberi in un landa desolata quale è il bush, sembrano tutti uguali. Ma il giorno dell’appuntamento il boscimane era puntuale ad aspettare sotto l’albero stabilito. Alla domanda del giornalista se aveva dovuto aspettare molto, il boscimane aveva risposto come se fosse la cosa più normale del mondo: “Solo qualche giorno”.

Questo la dice lunga sul concetto di tempo in Africa di cui ho parlato in più di una occasione nei miei post precedenti. Per gli Africani il tempo è una risorsa abbondante e l’aspettare pazienti fa parte della loro natura. In particolare gli hasabe si dedicano alle attività finalizzate al procacciarsi per non più di tre/quattro ore al giorno: il resto è tutto tempo libero....

E poi aspettare di notte da soli nel bush , vi posso assicurare, non è un’esperienza delle più tranquille, con iene e leopardi che si aggirano nell’ombra. Perché noi da bravi incoscienti alla luce delle nostre torcette elettriche ci eravamo avventurati di notte nel bush alla ricerca delle iene. E meno male che dei bambini del vicino villaggio, richiamati dall’inconsueto spettacolo di luci nel buio assoluto, ci avevano accompagnato nel nostro giro dissennato e soprattutto ci avevano riportati sani e salvi (a parte qualche ferita dovuta alle acacie spinose) al nostro campeggio. Senza di loro non avremmo mai saputo ritornare alle nostre tende e ora le nostre ossa credo biancheggerebbero nel bush.


TO BE CONTINUED


venerdì 11 dicembre 2009

SWEET XMAS ROLL


Sweet Xmas Roll


Ci sono quei giorni subito prima di Natale, durante il week-end, in cui non mi tirerei su dal letto neanche a cannonate. Eppure lo devo fare. Ci sono i regali da acquistare, l’albero da addobbare il menu per la cena di Natale da scegliere...

Che paturnie! Allora mi aggiro per casa come una specie di cencio mucillaginoso in cerca di qualcosa che possa placare, anche se solo per pochi minuti, il mio senso di ansia.

Poi vado in cucina, passo davanti al forno freddo e vuoto. E penso che sarebbe bello pensarlo caldo, illuminato, esalante odori deliziosi che mi riportino all’infanzia felice.

E allora prendo la cioccolata, la farina, lo zucchero....


INGREDIENTI: per 6 golosastri
200 g di burro
100 g di cioccolato fondente
Nutella q.b.
1 bustina di lievito vanigliato
6 uova
5 cucchiaini di acqua calda
100 g di zucchero
300 g di nocciole sgusciate non spellate e tritate a formare una granella

TEMPO DI PREPARAZIONE:
30 minuti

PREPARAZIONE:
Ho messo il forno a preriscaldare a 200 °C in modalità dinamica.
Ho fatto fondere (in un pentolino non antiaderente) a bagnolucia il burro con il cioccolato fondente. Nel frattempo ho preparato il pandispagna montando lo zucchero con le uova con l’aggiunta di farina e lievito. Quando il composto del pandispagna è stato bello spumoso l’ho versato su una placca da forno generosamente imburrata. L’ho cotto a 200°C per 10 minuti stando attento a dorare solo i bordi. Aspettando la cottura ho ammorbidito anche la Nutella a bagnolucia. Poi ho sfornato il pandispagna e lo ho adagiato su uno straccio bagnato. Ho quindi spalmato un abbondante strato di nutella sul lato interno. Ho quindi spruzzato sopra la granella di nocciole e ho arrotolato il pandispagna nel verso della lunghezza facendo attenzione a che la girella non si rompesse. A questo punto a spalmato l’esterno con la cioccolata fusa.
Non l’ho decorato con lo zucchero a velo.


PS Alternativamente si può prendere la macchina e armati di una buona dose di faccia di bronzo guidare fino da Paola che è la vera artefice del dolce ritratto in foto, e farselo preparare.

PPS Sulla ricetta non ci metto la mano sul fuoco.


lunedì 7 dicembre 2009

MOZAMBICO 2009 - Parte 8


11/08/2009 da Mueda a Quissanga (seconda ed ultima parte)


E così alla fine siamo arrivati al bivio da dove parte la strada sterrata che ci porterà a Quissanga! E da Quissanga partono le barche per Ibo, l’isola principale dell’arcipelago delle Quirimbas, che rappresenta la nostra meta agognata: mare, sabbia bianca, panciolle. Ma come direbbe Freak Antoni tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il” e troppo ancora ci divideva da Ibo e non solo in termini spazio-temporali.

La prima difficoltà ci si è subito palesata non appena scesi dall’autobus. Ma dove eravamo? Si perché di questo bivio non c’era traccia sulle cartine del Mozambico di cui disponevamo ( e dire che andavo tanto fiero della mia carta scala 1:1.900.000 che dispiegavo con la teatralità di un novello Livingstone ogni qualvolta il mio ego vanesio necessitava di far colpo sui locali illetterati…) e non c’erano neanche cartelli stradali che ci venissero in soccorso. A dire il vero, di cartello uno ce ne era ma era riguardo ad una qualche sorta di scuola di agraria che però di certo non era lì, visto che intorno all’incrocio c’erano solo poche capanne malconce. Non ci perdiamo però d’animo e chiediamo informazioni in giro. Veniamo così a sapere che il posto dove ci troviamo si chiama Adepepe (o qualcosa del genere) e che si effettivamente da lì passano dei bus locali per Quissanga. A suffragare quest’ultima informazione c’è il fatto che non siamo gli unici ad aspettare: tutto intorno ai margini delle strade bivaccano decine di persone. Ma come spesso accadrà in questo viaggio, siamo gli unici bianchi. Evidentemente i turisti che giungono alle Quirimbas battono altre strade o si avvalgono di più comodi mezzi i trasporto. Comunque il nostro bus dovrebbe passare di lì a poco e aspettiamo.

Approfittiamo della pausa per comprare qualcosa da mangiare e da bere. Non sono fortunato con i biscotti: i wafer nonostante non risultino scaduti, almeno da quello che riporta la data stampata dietro, sono al limite dell’immangiabile. Ma la fame è fame… Spero di rifarmi con le bibite. E’ da quando siamo arrivati che ho notato che qui in Mozambico vendono delle bevande della Fanta che in Europa non esistono: una è la fanta all’ananas in una lattina di un giallo acceso, l’altra è la fanta all’uva in una lattina in un viola che oggi definirei da No B Day. Opto per la seconda. Ora non è che mi aspettassi chissà che, e vero che c’era scritto “uva” sulla lattina e certo non mi aspettavo che contenesse la spremuta dei grappoli dei vitigni di Montepulciano ma il sapore da estratto di big bubble concentrato andava al di là delle peggiori aspettative. Sarebbe passato del tempo prima che avrei assaggiato la gialla variante all’ananas anche perché la lista dei coloranti riportata sulla confezione (coloranti dalle sigle sinistre mai letti prima nei prodotti europei) non lasciava presagire nulla di buono.

Comunque era passata più di un’ora da quando avevamo chiesto per l’ennesima volta conferme sul fatto che sarebbe passato un mezzo per Quissanga e tre da quando eravamo giunti in quel benedetto bivio: un tempo sufficientemente lungo per rendere impaziente il più serafico dei monaci tibetani. Eravamo ancora una volta bloccati nel bel mezzo del nulla e l’idea di passare la notte all’addiaccio in una qualche capanna abbandonata e pulciosa ad Adepepe non ci aggradava affatto. Gli africani che avrebbero dovuto come noi, raggiungere Quissanga dal canto loro attendevano impassibili come solo loro sanno fare (alla faccia dei monaci tibetani), nella convinzione che tanto prima o poi qualcosa sarebbe accaduto. E qualcosa sarebbe accaduto perché noi, da buoni europei impazienti e deterministi, ci siamo dati da fare per uscire da quell'impasse.

Infatti nel gironzolare per i dintorni del bivio scorgiamo oltre una curva, che lo nascondeva alla nostra vista, un pick-up fermo al lato della strada. Ci avviciniamo speranzosi di trovare un passaggio. Ma il pick-up è fermo perché in panne ma quello che sembra essere il capo degli operai che si affaccendano intorno al mezzo, si dimostra disponibile a darci comunque una mano. Ci dice infatti che sta aspettando una moto che lo condurrà a prendere un pezzo di ricambio necessario alla riparazione dell’auto e da lì, non si sa bene dove, telefonerà a non si sa bene a chi per farci venire a prendere da un altro pick up. Il piano è lacunoso ma è l’unico possibile.Sorprendentemente una mezz’ora dopo vediamo arrivare una moto che si riallontana dopo aver caricato il capo operaio su cui abbiamo riposto tutte le nostre residue speranze di lasciare quel maledetto bivio. Passata più di un ora senza che alcun mezzo sia transitato per la strada, decidiamo di tornare dagli operai per avere rassicurazioni. Ma il pick-up non c’era più. Evidente lo avevano riparato ed erano ripartiti: ma non dovevano aspettare il pezzo di ricambio? Boh! A questo punto perdiamo ogni speranza e quando ormai stiamo valutando quale delle capanne abbandonate e semidiroccate sia la migliore per trascorrerci la notte, un pick-up bianco e addirittura seminuovo, si profila all’orizzonte. Siamo salvi!

Ci mettiamo d’accordo sulla cifra che ci viene estorta per portarci fino a Quissanga e ci accomodiamo sul cassone scoperto posteriore che intanto si è riempito all’inverosimile di tutti quei disperati che come noi aspettavano di essere trasportati a Quissanga ma che si erano guardati bene dal muovere un solo dito perché questo accadesse.

Non sto qui a descrivervi lo strazio di quei duecento chilometri con le gambe anchilosate costrette in una postura innaturale, tra il culone di una vecchia sovrappeso e uno scatolone riempito di non so quale materiale indeformabile. A mano a mano che i chilometri venivano divorati ad una velocità folle, considerando il carico e il fondo stradale accidentato, l’aria di mare cominciava a farsi sentire sempre più e con essa la nostra felicità. Ad un certo punto del tragitto ho visto una sagoma nera volare fuori dal cassone. “Cazzo il mio zaino!” ho pensato: il mio zaino era infatti completamente nero. Ma poi, guardando con più attenzione, ho realizzato che era solo un nero tutto vestito di nero, ad essere volato via all’ennesimo sobbalzo. Nessuno dei nostri compagni di viaggio sembrava essersi preoccupato, più di quanto non avessi fatto io, delle sorti dello sfortunato ex passeggero; solo Greta, sensibile come sempre, ha cominciato ad urlare al guidatore di fermarsi. Per sua fortuna, il malaugurato passeggero era caduto in un tratto di strada sabbioso così che se l’era cavata con solo qualche escoriazione sul volto. Senza che nessuno scendesse ad aiutarlo, anche perché impossibilitati a muoverci, incastrati come eravamo gli uni contro gli altri, il nostro sfortunato compagno di viaggio ha percorso di corsa i duecento metri che lo separavano dal pick-up e ha ripreso posto, come se nulla fosse accaduto e senza che nessuno si occupasse di lui, in quell’ammasso di corpi.

Senza ulteriori disavventure siamo così alla fine giunti a Quissanga dove abbiamo preso alloggio presso la pessima pensão “Japan”. Ve la sconsiglierei se non fosse che è l’unico alloggio possibile in quel di Quissanga. Prima di cena abbiamo giusto il tempo di bere una birra tiepida e di fare quattro passi sulla spiaggia bianca di mangrovie che scopriamo essere anche la latrina del villaggio. Le feci umane di varia forma e consistenza disseminate un po’ ovunque che risaltano sulla superficie sabbiosa candida, non lasciano dubbi sull’utilizzo accessorio della spiaggia. Poi consumata una cena frugale ma inaspettatamente buona crolliamo letteralmente stremati a letto.

Domani è un altro giorno e si vedrà.

martedì 24 novembre 2009

Soul Cake


E’ domenica, è notte, è già tardi. Sono nel letto sotto il piumone, le due sono passate da un pezzo ma non riesco a prendere sonno. Come sempre più spesso mi accade quando la domenica sera guardo “Report” su Rai Tre.

Dovrei fare come Luca e smettere di vedere la trasmissione della Gabanelli, una volta per tutte e non incazzarmi più di fronte alle porcherie che ogni settimana gli autori dei servizi portano alla luce. Ma ho commesso l’errore di guardare “Report” anche stasera e ora di fronte al senso di impotenza al cospetto della tracotanza senza ritegno dei potenti, per dirla alla Camilleri, “mi monta la raggia”: e mi giro e rigiro nel letto senza riuscire a prendere sonno.

Ci vorrebbe qualcosa per rilassarmi… Ehi ma la risposta sta proprio di là sopra il ripiano di vetro che corona il muretto basso che divide la cucina a giorno dal salone. E’ infatti proprio lì , nel contenitore di alluminio, che si trova il resto della torta caprese che Paola ha portato stasera alla cena a casa dei miei genitori…

Paola è la compagna di mio fratello, grazie a Dio non si sono sposati evitandomi così: la cerimonia, il pranzo, la messa, le foto anche se convivono già da molti anni. Ora dovete sapere che Paola è una grande appassionata di cucina tanto da tenere su internet un blog dedicato alla sua passione (diario di cucina). Così quando sabato mattina mia madre mi ha chiamato per invitarmi a cena dicendomi che ci sarebbero stati anche Sandro (mio fratello) e Paola, non ho esitato un attimo: ho subito chiamato mio fratello dicendogli di diffidare Paola dal presentarsi alla cena senza un dolce fatto con le sue manine sante. Paola sa che sono ghiotto dei suoi dolcetti di cioccolato dal cuore liquido, …cioccolatosi … tenerosi… mmmmhh… (scusate ma l’Homer Simpson che è dentro di me ha avuto il sopravvento) ed erano proprio questi dolci che mi apettavo portasse. Ma Paola ha voluto strafare e ha portato la sua mitica torta caprese.

E ora i resti di questa torta, se avrete voglia di leggerne la ricetta sul blog di Paola (ricetta) vi renderete conto che cinque persone normali non ce la possono fare a terminare quel sublime ammasso di burro, cioccolato, mandorle, zucchero e cacao; sono di là tra la cucina ed il soggiorno, a pochi passi da me. Ho letto da qualche parte che il cioccolato contiene un composto interessante, l’anandammide che si lega allo stesso recettore cerebrale utilizzato dal composto fenolico tetraidrocannabinolo (THC), l’ingrediente attivo della marijuana. Ed è proprio di un succedaneo della marijuana quello di cui ho bisogno per rilassarmi e riuscire così a prendere sonno. E così mi alzo e mi servo, nel buio della cucina, un’abbondante fetta di torta caprese.

Ragazzi l’esperienza è stata al limite del misticismo. Ogni morso un susseguirsi di suggestioni che più appaganti non si può! Il rompersi della crosta burrosa ricoperta di zucchero a velo sotto la pressione degli incisivi. L’affondare rapido nel cuore più tenero di nero cioccolato che si frena appena sullo strato di mandorle tritate che la gravità ha addensato sulla base della torta. Semplicemente magnifico! E così dopo dieci minuti, col recettore cerebrale appagato e stordito me ne torno a letto.

E mi stavo per addormentare beato come un bambino quando altri foschi pensieri hanno rannuvolato di nuovo la mia mente. Ma lo sapevo quanto colesterolo e quanti zuccheri avevo ingurgitato? E poi mio padre ha problemi di diabete e magari c’è una familiarità in questa patologia… Avevo bisogno di rilassarmi di nuovo! Magari un’altra fettina di torta…. Magari sottilissima…

Ma alla fine la mia tempra morale superiore ha avuto il sopravvento e mi sono imposto di trattenermi e di proibirmi categoricamente la seconda fetta di torta (e vabbè la terza considerando anche quella con cui avevo fatto colazione, quella fatta fuori dopo pranzo non conta: era praticamente un’ostia). Anzi preso da un’enfasi salutista decido di portare quel che resta della torta l’indomani mattina in ufficio e dividerla con Stefania e Luca che lavorano con me.

Non ci crederete ma è proprio quello che ho fatto, a malincuore ma l’ho fatto. E ora mi ritrovo ad osservare, facendo buon viso a cattiva sorte, Luca e Stefania che divorano il mio tessoro.. povero il mio tessoro… Maledetti!


PS Lo so, lo so. La prossima volta vi finisco di raccontare del Mozambico.

lunedì 9 novembre 2009

La Fine della Terra


Vi starete giustamente aspettando di sapere come è finita la giornata di trasferimento da Mueda a Quissanga, in Mozambico. Vi chiedo di pazientare ancora qualche giorno: sto aspettando l’autorizzazione ad utilizzare una foto che ritengo emblematica dell’epilogo di quella giornata. Autorizzazione che non dovrebbe tardare ad arrivare, vero Sara? Nel frattempo voglio porre alla vostra attenzione una conversazione che è occorsa tra me e Alice giusto ieri (l’altro ieri per voi che leggete).

Alice è una bambina di sei anni o giù di lì: frequenta la prima elementare ed è figlia di una coppia di miei carissimi amici. I più attenti lettori di questo blog forse la ricordano per un disegno di cui mi ha fatto dono qualche tempo fa e di cui ho parlato in un precedente post ( vedi IMAGINE). L’altro giorno stavo facendo una passeggiata lungo il sentiero che si inerpica lungo le pendici del monte Soratte, non troppo distante da Roma, insieme a degli amici con cui avevo pranzato assieme e ai loro figli. Sulla via del ritorno io e Alice precedevamo il resto del gruppo lungo il sentiero immerso nel bosco. Camminavamo in silenzio e quando il bosco si è diradato ci siamo fermati sul ciglio del sentiero ad osservare la vallata sottostante e più distanti i monti che si stagliavano all’orizzonte. Ed è stato a questo punto che Alice mi ha formulato una domanda secca e precisa: “Quando è la fine della Terra?”.

La domanda è giunta del tutto inaspettata ma non per questo mi sono fatto trovare impreparato. Datosi che stavamo contemplando un panorama che si allargava fino alla linea dell’orizzonte non avuto dubbi sul senso della domanda: ho pensato che con “la fine della Terra” , Alice che è una seienne, intendesse il limite del mondo. Ho cioè pensato che la bimba avesse una concezione prepitagorica o , se preferite, medievale della Terra: una Terra piatta che il fiume Oceano delimita dall'abisso. Pensavo cioè che ingenuamente si chiedesse se la Terra finisse oltre quei monti che cingevano il panorama che stavamo osservando. Al che, con la soddisfazione di dare nozioni così importanti ad una mente che si sta formando, ho cercato di spiegarle nella maniera più semplice possibile che la Terra non finisce, che è come una palla enorme, così grande che sembra piatta, che se uno cammina per tanto, tanto tempo, alla fine fa tutto il giro e si trova allo stesso punto di partenza. E per dare evidenza visiva a quanto andavo affermando mi aiutavo gesticolando con le mani: una a simulare una sfera l’altra ad indicare un immaginario percorso equatoriale. Contento di essere riuscito a dare una spiegazione sufficientemente semplice e chiara ho guardato Alice per capire se aveva effettivamente capito quanto avevo cercato di inculcarle sulla sfericità del nostro pianeta.

La perplessità della sua espressione seria non mi ha fatto presagire niente di buono. “Ma no” mi ha detto, “volevo sapere quando è che il mondo non ci sarà più!”. Che stupido! Devo dire che non avevo proprio pensato all’accezione escatologica delle sue parole. Ma si, sicuramente Alice sapeva già che la Terra è sferica, magari anche che non lo è perfettamente e che è un geoide (Cristiana, la mamma, è sempre prodiga di informazioni e di stimoli culturali verso i figli), dovevo immaginarmelo. Quello che Alice voleva sapere era quando la Terra smetterà di esistere così come la conosciamo, quando cioè si estinguerà il genere umano.

A questo punto una ridda di domande mi sono balenate in mente. Perché una bambina di sei anni, serena e felice, si pone domande del genere? Anche io, alla sua età, mi ponevo domande così profonde? Le dovevo però prima di tutto una risposta. Ho tentato allora di imbastirle una risposta plausibile. Cercando di evitarle versioni catastrofiste sulla fine del mondo: impatti con meteoriti vaganti nello spazio, Armageddon, il giudizio universale... che avrebbero potuto turbarla, ho cercato di trovare una spiegazione che spostasse più in là possibile nel tempo, la fine del nostro pianeta e della nostra specie. Ho optato allora per la versione che prevede che la fine del nostro mondo avverrà quando il sole avrà esaurito il suo combustibile, cioè l’idrogeno, e si spegnerà per sempre in maniera quasi indolore. “Ma questo avverrà tra tantissimi anni, Alice, quando noi non ci saremo più!” ho cercato di rassicurala. Al che lei mi ha guardato serissima e mi ha detto: “Quando non ci sarò più io e i miei fijoli?”. I suoi fijoli sono il massimo dell’astrazione temporale proiettata nel futuro a cui la sua tenera età può condurla: “Si Alice stai tranquilla avverrà tra tanto, tanto tempo: non abbiamo di che preoccuparci”.

E’ la seconda volta che sento pronunciarle quel termine “fijoli”: figlioli detto come lo ho sentito dire tante volte a mia nonna che è Umbra (d’altronde anche Alice passa tutti gli anni, una parte dell’estate in Umbria). La prima volta fu in una domanda che mi colpì a bruciapelo, inaspettata come un fulmine a ciel sereno, qualche anno fa: “Ma perché tu non hai dei fijoli?” Domanda più che lecita: Alice mi vede come una persona anziana e tutte le persone anziane con cui ha a che fare, hanno figli. E’ una domanda che spesso mi sono sentito rivolgere in Africa, con lo stesso stupore infantile, dove spesso gli uomini alla mia età hanno già dei nipoti.

Pensavo a quei fijoli che non avevo e alla risposta alla domanda di Alice a cui non sapevo o non volevo dare una risposta. Intanto Alice distratta da qualche cosa era corsa via pensando ormai a tutt’altro lasciandomi solo con i miei pensieri irrisolti…

Beata l’infanzia!


mercoledì 28 ottobre 2009

MOZAMBICO 2009 - Parte 7


11/08/2009 da Mueda a Quissanga (parte prima)


Alla mattina di buon ora prendiamo l’autobus per Quissanga. Gli autobus partono, chissà poi perché, la mattina molto presto o, a mio modo di vedere, la notte molto tardi. Il nostro in particolare parte alle 5:00.

C’è un buio pesto e fa un freddo cane (e non è un modo di dire: batto i denti dal freddo, meno male che siamo in Africa!). Nella strada principale si susseguono i bus verso tutte le direzioni. Nel nord del Mozambico c’è una linea di autobus “ufficiale” che si chiama Macula. E’ costituita da autobus grandi: dei vecchi Volvo, probabilmente dismessi decenni fa da qualche compagnia di trasporti europea. Generalmente gli autobus della Macula sono efficienti, il costo del biglietto è fissato in tariffari ufficiali e non va concordato volta per volta, partono con puntualità e arrivano a Dio piacendo a destinazione con ritardi contenuti. Ed è forse per tutte queste ragioni che i Mozambicani gli preferiscono gli autobus appartenenti alle più colorite linee non ufficiali.

Sembra un controsenso ma è così. Negli autobus “non ufficiali” e più ancora nei cochibombo e nei chapas, i locali possono infatti contrattare sul prezzo, possono portare carichi ingombranti senza dover pagare un sovrapprezzo come avviene nel caso dei mezzi della Macula e soprattutto possono chiedere di scendere dove vogliono e non solo nelle fermate prefissate. Alla fine sui pullman della Macula si riesce a viaggiare seduti su posti numerati e personali e normalmente non accalcati come sardine tra galline, caprette e merci varie tra cui il temutissimo e maleodorante sacco di pesce secco.

E per tutte queste ragioni noi avevamo pianificato di prendere l’autobus di linea della Macula. Ma poi però un cochibombo passa prima: alle 4:30 invece che alle 5:00 come previsto per il Macula, e così vuoi un po’ per il freddo vuoi un po’ per la fretta di partire, lo prendiamo nella speranza di arrivare prima a destinazione. Quando saliamo, l’autobus è semivuoto e ci stendiamo nei sedili con la speranza di prolungare quel sonno che abbiamo bruscamente interrotto solo pochi minuti prima.

In Africa però un autobus difficilmente parte se non è pieno e anche questo non viene meno ahimè alla regola. E così ci troviamo a fare avanti indietro per Mueda in buio nero come la pece a raccattare quanti più passeggeri possibile.

Alla fine lasciamo Mueda che sono quasi le 5:00 ma con l’autobus pieno all’inverosimile. Ma abbiamo ancora una decina di minuti di anticipo su quello della Macula… Poi però dopo neanche un’ora il nostro mezzo si rompe: un problema ai freni, credo. E mentre il nostro autista, impovvisatosi meccanico, è indaffarato nel tentativo di riparare il guasto; vediamo il bus della Macula sopravanzarci e fermarsi subito davanti al nostro catorcio in panne, per vedere se abbiamo bisogno di aiuto.

L’idea di abbandonare il nostro cochibombo al suo triste destino e trasferirci armi e bagagli al più comodo Macula ci alletta alquanto. Ma il nostro perfido autista deve averci letto nel pensiero e temendo che noi, magari seguiti da altri passeggeri, possiamo richiedergli il rimborso del biglietto, caccia a malo modo il Macula rassicurandoci però sulla riparabilità del suo mezzo.

Ed è così siamo in panne lungo una strada desolata dove il passaggio di un mezzo a motore è un evento raro quanto insolito. Le probabilità che passi un altro mezzo che possa caricarci è ridotta al lumicino e tutte le nostre speranze sono riposte nel nostro autista/meccanico che a vederlo armeggiare perplesso presso la ruota non è che dia proprio il massimo dell’affidamento.

Siamo avviliti, affamati e assonnati. Non si vede una via di uscita dalla situazione in cui ci troviamo nostro malgrado. Tra l’altro ad aumentare il nostro scoramento c’è il fatto che il nostro autista ha abbandonato la sua postazione presso la ruota e si è allontanato inoltrandosi nella boscaglia che circonda la strada.

Poi però dopo poco ritorna con in mano un ramo flessuoso e con l’ausilio di questo piccolo pezzo di legno compie l’impossibile: ripara i freni, almeno è quello che speriamo, neanche fosse un meccanico della Ferrari.

Ed è così ripartiamo e lungo la strada risorpassiamo il Macula fermo a sua volta in panne sul bordo della strada. Il sorpasso è accompagnato da un boato da stadio da parte di tutti i passeggeri esultanti, noi per primi.

La nostra scelta si è alla fine rivelata vincente!


giovedì 15 ottobre 2009

MOZAMBICO 2009 - Parte 6


10/08/2009 Mueda (Seconda ed ultima parte)


Eh si doveva essere andata proprio come dicevo nel post precedente. Lo starnazzare che avevamo sentito venire da fuori proveniva proprio dalla nostra cena che infatti ci è stata servita non prima di un’ora e mezza da quando avevamo decretato la condanna a morte delle galinhe, da quando cioè, in altri termini, avevamo ordinato pollo per cena. Comunque mors tua vita mea: le galinhe, con tanto di patate fritte, erano ottime e certamente quanto meno freschissime.

Il giorno dopo, svegliandoci di buon ora, lasciamo la nostra lussuosa pensione senza acqua corrente e senza elettricità (come d’altronde però tutto il resto della ridente cittadina) per fare un giretto del posto.

Come spesso accade le cose più belle ci si presentano dinnanzi non richieste. Visitando i dintorni di Mueda ci accorgiamo infatti che la periferia è più bella e caratteristica del centro. Tra l’altro anche dal punto di vista paesaggistico non è poi così male… Avvicinandoci al limite occidentale del villaggio ci si può accorgere del fatto che Mueda sorge su un’altura che un burrone divide dalla valle sottostante. Il colpo d’occhio è da mozzare il fiato. Niente a che vedere con le impressioni pessime del giorno prima.

Stiamo per tornare verso la pensione per cercare qualcosa da mangiare per colazione quando veniamo incuriositi dal ritmico suonare di alcuni bonghi e tamburi, proveniente dall’estremità della strada principale. E qui sotto alberi dalle ombrose fronde, donne Makonde tatuate sul viso ballano le loro danze tradizionali vestite in abiti variopinti. Alcune indossavano maschere di legno che le coprivano completamente la faccia.

La cosa va avanti per tutta la mattinata e per di più gratis. Veniamo a sapere che a Mueda è festa perché ricorre l’anniversario del massacro omonimo. E questo spiega il fatto che tutte le scuole di danza tradizionale si sono date appuntamento sulla strada principale. Alla faccia di quanti volevano farci pagare per mostrarcele!

Non sono un appassionato di danza ne tanto meno so ballare (una volta il portiere di casa dei miei vedendomi ballare un liscio mi disse che potevo ballare anche la sigla del telegiornale e non credo che fosse un complimento!) ma devo dire che tutto quel dimenare forsennato di anche contrapposto alla ieraticità inespressiva delle maschere lignee aveva un non so che di suggestivo.

Il pomeriggio continuando le nostre peregrinazioni per i dintorni abbiamo visitato i villaggetti costituenti la periferia est di Mueda. E qui il destino ha voluto che trovassimo addirittura anche oggetti in legno del famigerato artigianato Makonde. Ma sull’autenticità di tutto ciò personalmente nutro seri dubbi. Lo scultore che vedo intento a tornire un mortaio di legno col suo tornio azionato dal piede infatti il giorno prima sicuramente lì non c’era. Eravamo difatti passati di lì la sera prima e ricordo senza ombra di dubbio che stavano costruendo delle improbabili finestre di legno.

Ad avvalorare questa mia supposizione c’è anche il fatto che la sera all’imbrunire vediamo il tipo, il sedicente scultore Makonde, passare in motorino con gli scatoloni carichi delle sculture invendute per tornare chissà dove.

Secondo me quelle sculture venivano dal mercato del legno di Dar Es Salaam dove vengono fabbricate la maggior parte delle opere artigianali in legno vendute in questa parte dell’Africa.

Noi comunque, nel dubbio, le sculture Makonde o simil-Makonde le abbiamo comprate lo stesso!


(Adesso fanno sicuramente bella mostra nelle nostre case, per lo meno nella mia, e le possiamo spacciare per Makonde originali senza tema di smentita. Credo che la probabilità di annoverare tra i miei ospiti un esperto di arte Makonde sia abbastanza remota…)


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Per il logo si ringrazia Lucaft qui ritratto in foto